Ripensare il legame tra autismo ed empatia
L'idea che gli autistici non provino empatia è ancora radicata, ma le testimonianze dei diretti interessati e il lavoro di molti esperti ormai raccontano un'altra storia.
“Nella ricerca [scientifica] non c’è una definizione standard e concordata di empatia”. Inizia così un editoriale pubblicato sulla rivista Autism, dove Sue Fletcher-Watson della University of Edinburgh e Geoffrey Bird della University of Oxford invitano a una riflessione sull’impiego della parola empatia – e tutto ciò che questa comporta – nelle pubblicazioni scientifiche e in generale nell’accademia, in particolare quando si parla di autismo.
Nonostante i grandi passi in avanti fatti nella conoscenza dei disturbi dello spettro autistico, sia da parte della comunità scientifica che nella consapevolezza del grande pubblico e dei professionisti sanitari, ci sono alcune etichette e semplificazioni che faticano a scollarsi. Ad accomunarle, la tendenza a trattare le diversità come deficit e raramente come differenze, concentrando su questo l’intera narrazione: gli autistici diventano soprattutto persone che non. Tra queste diversità campeggia proprio l’empatia e la convinzione ancora radicata in molti che chi è nello spettro ne sia privo, incapace di mettersi nei panni del prossimo, di comprenderne stati d’animo, emozioni, sensazioni e di comportarsi di conseguenza.
È un approccio spesso de-umanizzante ma che si fatica ad abbandonare, nonostante negli ultimi anni sia stato spesso messo in discussione, anche perché pone sotto lo stesso ombrello tutte le persone nello spettro autistico senza tener conto della grande diversità che appunto caratterizza uno spettro. Oggi sappiamo che, come per le persone neurotipiche, non vi sono due autistici uguali tra loro.
Quando empatia diventa sinonimo di umanità
Secondo gli autori dell’editoriale, non avere una definizione di empatia specifica e universalmente riconosciuta è alla radice del problema. Affinità con il prossimo, capacità di immedesimarsi, di provare affetto e avvertire vicinanza, di comprendere gli stati d’animo e le emozioni altrui: è facile capire perché l’empatia è spesso vista come una caratteristica che definisce l’essere umano, scrivono i due scienziati, e il perché sia un concetto tanto complesso da fissare – dunque da testare -. Non a caso, gli studi scientifici che documentano l’empatia in altre specie (che si tratti di ratti o primati) tendono a finire sui media abbinati a “provano empatia proprio come noi”, una formula che accompagna spesso le caratteristiche che sentiamo profondamente nostre – e che, quando condivise con altre specie, ce le fanno sentire più vicine -.
Per capire meglio l’empatia, dicono gli autori, è utile frammentarla in tre stadi:
- 1. notare che una persona sta provando qualcosa
- 2. identificare di cosa si tratta
- 3. reagire in un modo considerato opportuno.
Per gli standard neurotipici, questo significa provare gli stessi sentimenti, immedesimarsi, condividere sensazioni e farlo in un modo che sia adeguato ed evidente all’altra persona. Notare gli indizi sociali tipici nel comportamento o su un volto può essere a volte complicato per un autistico/a, di qualunque età, dunque già al primo punto incontriamo qualcosa sul quale soffermarsi. Seguito, al punto 2, da una difficoltà che accomuna molte persone nello spettro: riconoscere e identificare le emozioni altrui (ma anche le proprie). Quella risata è felice o è beffarda, sarcastica? Sta piangendo per la tristezza o per la gioia? A questo punto, resta “solo” da manifestare una reazione adeguata.
Ma “le risposte ai segnali emotivi altrui sono pesantemente dettate da norme e aspettative sociali, definite per necessità dalla maggioranza non autistica. Ed ecco un altro punto per il quale gli autistici potrebbero dall’esterno sembrare poco empatici quando in realtà, semplicemente, nella loro reazione non seguono lo stesso ‘copione’ di una persona neurotipica”. Ragionando in questi termini, già il cosiddetto deficit di empatia diventa semplicemente un modo diverso di comprendere, interpretare e reagire all’esperienza e al sentire del prossimo.
Ripensare l’empatia
Sulla rivista Autism in Adulthood, a marzo, si affrontava lo stesso tema attraverso la trascrizione di una brillante tavola rotonda tra esperti, anche autistici. Damian Milton, professore in disabilità dello sviluppo alla University of Kent (autistico), Noah Sasson, professore di psicologia alla University of Texas, Lizzy Sheppard, professoressa assistente di psicologia alla University of Nottingham e Melanie Yergeau, professoressa associata di lingua e letteratura inglese University of Michigan (autistica) sono partiti da un punto molto vicino a quello che ha suscitato l’editoriale di Fletcher-Watson e Bird. Quelle che vengono considerate mancanze, possono tranquillamente essere viste come semplici differenze: la necessità di avere più tempo per processare determinati aspetti dell’empatia o ancora il fatto che, per alcuni autistici, l’empatia (emotiva) sperimentata possa essere addirittura troppa.
Spesso la capacità di leggere le emozioni sul volto di una persona, negli studi scientifici, si misura servendosi di fotografie che ritraggono persone con diverse espressioni: è una situazione molto lontana dalla realtà, dice Sheppard, perché manca un contesto così come un’interazione vera con quella persona. C’è ancora molto da fare per valutare la bidirezionalità dell’empatia, aggiunge, ma gli studi che mostrano le difficoltà dei neurotipici nell’attribuire stati mentali agli autistici sono già un cambiamento di paradigma positivo.
Bidirezionalità: e se si trattasse, per l’appunto, di un problema di comprensione tra persone che vivono il mondo che le circonda in modo diverso, una difficoltà che rende l’empatia – così come la comunicazione – difficile da parte di un neurotipico verso un autistico esattamente come da parte di un autistico verso un neurotipico? Questo aspetto, come anticipato da Sheppard, dagli studi è già emerso: per una persona neurotipica, comprendere gli stati mentali di una autistica e leggerne le emozioni non è banale e si parla nello specifico di mind blindness.
Lo stesso Milton, partecipante alla tavola rotonda, oltre ad avere un punto di vista dall’interno in quanto autistico è noto nell’ambiente per il suo lavoro sulla teoria del double empathy problem: quando due persone con esperienze del mondo profondamente diverse interagiscono, è difficile che possano provare empatia reciproca come la intendiamo oggi. Le evidenze scientifiche che già abbiamo su questa “incomprensione” tra neurotipici e autistici, scrive Milton, “suggeriscono che le teorie psicologiche dominanti sull’autismo siano, nel migliore dei casi, parziali”.
Gi autistici “hanno relazioni molto profonde con altre persone, con animali, oggetti e più diffusamente con ciò che le circonda. Troverei davvero scorretto se questo aspetto fosse sottovalutato o considerato poco importante”, ha aggiunto Yergeau durante la tavola rotonda.
Capire e quantificare l’empatia
Per approfondire ancor di più il punto di vista dei diretti interessati basta fare un giro sui social media, dove – tra gruppi e pagine – molti parlano apertamente della propria vita, di come percepiscono il mondo e di come pesino ancora troppo gli stereotipi e le semplificazioni associati ai disturbi dello spettro autistico. I giovani autistici e gli adulti, troppo spesso non coinvolti nell’accademia e nelle iniziative che li riguardano (da qui il motto “Nothing about us without us” adottato anche da ASAN, Autistic Self Advocacy Network), sono una finestra unica sulla mente neurodiversa e su come un autistico percepisca il mondo.
Su Twitter, ad esempio, l’hashtag usato dagli autistici per parlare di autismo è #ActuallyAutistic; da tante conversazioni sembra chiaro che continuare a parlare di mancanza di empatia è una visione, se non vogliamo dire imprecisa, quantomeno incompleta.
“Tutta la faccenda per la quale gli autistici non hanno empatia è una marea di stupidaggini causata dal fatto che può capitarci di fraintendere le nostre emozioni, alcuni di noi le esprimono in modo diverso e/o storicamente le persone non ci ascoltano mentre conducono le proprie ricerche” (@Schakerin)
“L’empatia degli individui autistici può diventare estremamente forte e capita di assorbire le ‘vibrazioni’ e le emozioni altrui con estrema facilità. Per questo io non posso guardare alcuni contenuti davvero deprimenti, o non sono sempre in grado di aiutare un amico che sta passando un brutto periodo” (@blueskyredmars)
Come si misura l’empatia? Molti studi scientifici si basano sull’EQ, Empathising Quotient, un test di self report che viene a volte proposto anche durante il percorso diagnostico per i disturbi dello spettro autistico e nel quale si risponde a una serie di affermazioni in base a quanto ci si trova d’accordo o in disaccordo. Alcuni esempi:
mi turba vedere persone che soffrono al telegiornale/ a volte mi dicono che sono insensibile, ma non sempre comprendo il motivo/ per me è difficile capire perché alcune cose agitino tanto le persone/ sono in grado di dire se una persona sta nascondendo le sue vere emozioni/ mi turba vedere animali che soffrono/ se una persona mi chiede cosa penso del suo taglio di capelli, rispondo con onestà anche quando non mi piace.
Nell’editoriale, Fletcher e Bird sottolineano quelli che secondo loro sono i limiti di questo test così predominante nella letteratura sull’autismo. È facile da somministrare e praticamente a costo zero, spiegano, ma “il mito della mancanza di empatia nell’autismo è ormai talmente radicato che un volontario che dicesse di non avere un deficit di empatia si troverebbe a mettere in discussione la visione della maggioranza della comunità scientifica e medica, o addirittura a screditare la propria diagnosi”.
Così, proseguono gli autori, molti potrebbero rispondere riportando una mancanza di empatia anche quando dovessero in realtà sperimentarla. Alcune domande sono vaghe, altre richiedono a chi risponde di confrontare la propria realtà con quella di un gruppo non ben definito, altre ancora non indagano davvero la percezione in prima persona dell’autistico/a, ma come questa viene recepita dall’esterno (“mi dicono che”).
Come conclude Milton nel suo intervento, “quello che serve è molta più umiltà quando si lavora con le persone autistiche [nel capire] quello che succede e non saltare alle conclusioni. È questo, a livello pratico, il messaggio che vorrei trasmettere”.
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