TECNOLOGIA

Dottori al polso

Dal conteggio dei passi e delle calorie fino all’ECG in tempo reale, da Apple passando per Fitbit, Samsung e Xiaomi, oggi il medico è quasi al polso e i dispositivi wearable, sempre più accessibili, spingono verso un cambiamento del rapporto con la nostra salute. Ma possiamo davvero fidarci delle notifiche? Gli smartwatch possono davvero salvarci la vita? 

L’Apple Watch di Jorge ha cominciato a suonare mentre tornava da San Paolo, sotto un cielo del Brasile che sapeva ancora di vacanze di Natale. La notifica gli è vibrata al polso: “Battito cardiaco troppo alto”. Jorge stava camminando ma il suo cuore invece correva a 170 battiti al minuto.

Jorge Freire non era tra i 419.217 tester che hanno partecipato al trial messo in piedi da Apple con l’Università di Stanford: ha letto la notifica del battito anomalo del suo cuore nella vita vera. Un medico dell’ospedale più vicino ha studiato i dati dello smartwatch, lo ha sottoposto agli esami specialistici e ha confermato che aveva in corso una pericolosa tachicardia. Che se non fosse stata curata, avrebbe potuto procurargli un infarto. 

Gli Apple Watch della serie 4 e 5 hanno rivoluzionato il mondo della mHealth, grazie agli elettrodi integrati possono rilevare delle frequenze cardiache anomale e, con un semplice tocco, permettono di effettuare un elettrocardiogramma in tempo reale. Non sono dispositivi medici e non diagnosticano un infarto, ma possono aprire la strada per un’indagine clinica. Come è successo con Jorge. Quando ha condiviso la sua disavventura su Instagram, Jorge Freire non ha avuto dubbi nello scrivere che l’Apple Watch gli aveva “salvato la vita”.

La storia di Jorge, come quella di tanti altri, dimostra che il rapporto paziente-sanità sta cambiando. È interessante provare a riflettere sulle diverse facce del nostro sistema sanitario come per esempio gli ambulatori dei medici di base, in cui il dottore assume quasi il ruolo di un amico, un protettore e talvolta quasi un confessore; le corsie degli ospedali, dove tecnologie e smartwatch si incontrano con gli specialisti che intervengono in casi di emergenza; i piani alti della sanità, dove si cerca l’equilibrio tra servizi sanitari e rivoluzione tecnologica. 

Negli ambulatori 

Nel 2013 la mHealth – la salute mobile, fatta di cellulari e app, smartwatch, auricolari e altri dispositivi intelligenti – fatturava quasi 2 miliardi e mezzo di dollari, nel 2018 sfiorava i 22. Probabilmente Jorge non lo sapeva, come non sapeva che nel terzo quadrimestre del 2019 sono stati venduti 84.5 milioni di wearables, di cui 17.6 milioni di smartwatch.
Oggi anche molte compagnie assicurative puntano sui dispositivi indossabili: “Ti sconto la polizza sulla vita se in cambio fai esercizio fisico e ti monitori con le nostre app”, dicono, e se va bene, il dispositivo lo regalano pure. Più clienti in salute, vite più lunghe, termini dei pagamenti dei premi più lunghi e dunque più tempo prima di pagare. La diffusione delle tecnologie digitali e dell’interconnessione globale può accelerare la creazione di una sanità universale di qualità: per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha inserita tra le aree da sviluppare con urgenza.

Quando si parla di mHealth diventano decisive le tech skills. Cioè quanto il paziente si trova a suo agio con la tecnologia. I medici di base nel proprio lavoro quotidiano hanno a che fare, in media, più con anziani che con adulti di mezza età: in Italia nel 2017, gli ultra 65enni erano oltre 13,5 milioni, oltre il 22% della popolazione. Secondo molti medici, l’anagrafica è un fattore determinante nel rapporto con queste nuove tecnologie e con le diverse modalità di gestione di un’ipotetica notifica di “emergenza” prima con se stessi e poi con il medico. 

Esistono quindi dei risvolti positivi ma, per quanto riguarda i dispositivi indossabili, al momento ci sono più rischi che benefici. Forse i wearables possono rilevare qualcosa che non va nel nostro cuore ma, a oggi, non sono dispositivi medici: c’è dunque il rischio di alimentare insicurezza e ansia anche ingiustificate in pazienti già presi da malattie croniche importanti. Inoltre c’è il pericolo che molti utenti arrivino in ambulatorio con pagine di misurazioni sbagliate, che non sanno leggere e per le quali sono andati in ansia. Il rischio è passare più tempo a tranquillizzarli che a visitarli, ingolfando la macchina della sanità. 

Tra le corsie

La salute mobile sta progressivamente allargando i propri confini. Ci sono lenti a contatto che monitorano i livelli di glucosio, apparecchi acustici per aumentare l’udito, solette con sensori che misurano il carico e l’equilibrio. I wearable più diffusi, tuttavia, sono quelli per la salute del nostro cuore. Non è un caso visto che le patologie cardiache e l’ipertensione arteriosa, tra i 35 e i 75 anni, colpiscono il 51% degli uomini e il 37% delle donne e che la fibrillazione atriale, che colpisce circa il 3% della popolazione, è spesso asintomatica ma tra le maggiori cause di ictus.

Apple e Stanford hanno lavorato insieme nel progetto Apple Heart Study mettendo lo smartwatch sui polsi di oltre 400mila persone. Il trial si è chiuso a marzo 2019 ed è emerso che “solo” lo 0,5% dei tester ha ricevuto notifiche di battiti irregolari: nell’84% dei casi gli orologi avevano ragione e c’erano aritmie o fibrillazioni in corso, nel 16%, invece, i dispositivi avevano torto. Ma se l’Apple Watch non manda alcuna notifica, non significa dunque che l’aritmia non c’è, anzi: potrebbe essere comunque in corso senza che lo smartwatch riesca a rilevarla oppure, se la persona non conosce la propria storia clinica o non ha mai avuto episodi prima, l’allarme del dispositivo potrebbe essere sottovalutato o non considerato. 

 La fibrillazione atriale in molte persone è asintomatica, altre volte il sintomo, come la troppa fatica salendo una rampa di scale, c’è eccome ma non è palese. Per questo, secondo Paolo Della Bella, primario di Aritmologia ed Elettrofisiologia Cardiaca all’Ospedale San Raffaele di Milano, nel rapporto con queste tecnologie è fondamentale la conoscenza di sé e dello strumento che si ha tra le mani. “Se un individuo ha una storia clinica con casi di fibrillazione atriale o episodi cardiaci, interpreterà in un certo modo l’allarme di un dispositivo che ha al polso. Altri invece che non hanno uno storico possono ignorarlo o interpretarlo come innocuo. Per questo non possono considerarsi metodi sicuri di salvaguardia medica ma degli strumenti di sorveglianza e di screening iniziale per un paziente consapevole”.

Parlare di prevenzione suona ancora prematuro, ma i dispositivi indossabili possono spronare i fruitori verso una maggiore conoscenza di sé. “I wearable devices non sono prodotti medici e quindi non salvano vite – continua Della Bella – ma possono stimolare i pazienti ad indagarsi e prendere coscienza di rischi e malattie a cui possono andare incontro. Questa rivoluzione tecnologica è una cosa da perseguire e porterà grossi vantaggi alla popolazione e anche ai medici”. 

Gli utenti, poi, non sono gli unici che devono imparare a usare questi dispositivi. Nonostante nel 2018 il mercato globale dei dispositivi indossabili abbia raggiunto un valore di 1,64 miliardi di dollari con 178,0 milioni di unità spedite, con l’Italia tra i grandi consumatori, il nostro paese secondo i dati Desi 2019 (l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società) è al 24esimo posto su 28 paesi per quanto riguarda la pervasività della mHealth. Forse anche per questo il rapporto tra medici e tecnologie è ancora in fase di rodaggio. “Molti colleghi preferiscono non accettare ancora mail con i pdf dell’elletrocardiogramma fatto dallo smartwatch – spiega il dott. Della Bella – Molti pazienti lo stanno già facendo e credo invece che dedicare una certa quota del mio tempo a leggere le mail dei miei pazienti con i loro esami o i tracciati fatti dal wearable sia importante. Certo, la diagnosi è suggerita e non confermata e quindi non baserò mai una terapia su un loro risultati ma restano comunque fonti utili di indizi e indicazioni”. 

Nel sistema

Lavorare sul rapporto tra medico, paziente e tecnologia rivoluzionerà anche il sistema sanitario: “entrambi condivideranno una quantità sempre maggiore di dati. Culturalmente, il paziente diventerà un “nuovo” paziente che si informa ed è in continuo apprendimento su se stesso; anche il medico dovrà interpretare un numero esponenzialmente crescente di informazioni, che necessiteranno anche il coinvolgimento di competenze diverse dalle proprie, la cui interpretazione dovrà necessariamente passare da sistemi di supporto delle decisioni basati sulle evidenze medico-scientifiche”. Ne è convinto Alberto Sanna, ingegnere e direttore del Centro per Tecnologie Avanzate per la Salute e il Benessere dell’Ospedale San Raffaele di Milano. 

Affinché queste tecnologie assumano un ruolo sempre più importante servono numeri e accuratezza sempre migliori e maggiori. “Queste tecnologie devono essere inquadrate come elementi abilitanti di un’evoluzione del rapporto tra il medico curante e il paziente, certificate Gold Standard così da poter certificare l’accuratezza dei dati acquisiti e incluse in protocolli clinici disegnati sulla base delle evidenze di natura statistica emerse da clinical trials eseguiti in studi multicentrici”. Se davvero si vuol parlare di rivoluzione, allora per Sanna questa è la strada da percorrere poiché “i cambiamenti epocali non hanno scorciatoie metodologiche”.

Ma il sistema sanitario nazionale italiano come sta reagendo? Michele Brait, Direttore Generale dell’Asst Pavia, riflette sui dati del Desi 2019. Se l’Italia è in fondo alla classifica della diffusione della mHealth con la Lombardia leader tra le regioni in termini di digitalizzazione, “siamo invece all’ottavo posto in fatto di sanità digitale. Il 24% degli italiani ha usufruito di servizi e assistenza erogati online mentre il 32% dei medici di base usa le ricette digitali. Sono dati ancora migliorabili”. 

Il quadro è ancora difficile da decifrare con chiarezza. Sostituire un fonendoscopio o uno sfigmomanometro tradizionali con uno digitale in alcuni ambienti sembra un’impresa ancora difficile. “Il sistema sanitario italiano è sempre stato prudente nei confronti delle innovazioni. Fortunatamente la diffusione di tecnologia in altri contesti, ad esempio l’automobile, le smart tv, la domotica, contamina anche medici e pazienti che cominciano non solo ad essere interessati, ma anche a chiedere soluzioni innovative per erogare e fruire delle prestazioni e relativi” spiega Brait, sottolineando anche come sarà difficile poi considerare accettabile un eventuale passo indietro tecnologico “quando l’introduzione tecnologica ha modificato i comportamenti e migliorato il lavoro e l’ottenimento di risultati”. 

Limiti e possibilità 

Come già sottolineato, il rischio più grande si corre se si sovrastima l’affidabilità medica dei wearable devices: si teme l’illusione di soluzioni semplici, immediate e fai-da-te a problemi complessi per i quali serve l’interpretazione competente da parte di medici e specialisti. “In più non si può pensare di affidarsi a sistemi in cui possono esserci falsi allarmi, malfunzionamenti, interferenze o scarsa connettività. – continua l’ingegnere Alberto Sanna – Le tecnologie diventano sempre più pervasive nella vita quotidiana, si miniaturizzano, sono sempre più connesse anche grazie alle nuove infrastrutture tecnologiche, come per esempio le reti 5G. È un bene se la tecnologia ci aiuta a migliorare la gestione delle patologie, ma è altrettanto indispensabile usare queste tecnologie pervasive, in grado di monitorare i nostri comportamenti, la nutrizione, la postura, l’attività fisica, il sonno, l’esposizione a raggi UV condividendo con il medico questi dati e mettendoli in relazione con la nostra storia clinica individuale. Lo scopo è acquisire consapevolezza di quali correzioni potremmo apportare ai nostri stili di vita personali per limitare il rischio di insorgenza di malattie”. 

Elettrocardiogrammi fatti al polso, orecchini che misurano la saturazione di ossigeno nel sangue, tatuaggi per il controllo della glicemia o l’idratazione, vestiti con tessuti smart integrati con sensori ambientali: sognare il futuro della tecnologia è facile. L’Asst di Pavia diretta da Michele Brait, per esempio, è già un passo avanti da quando ha introdotto una serie di letti degenti integrati da Intelligenza Artificiale. Secondo il Direttore Generale, quando si pensa al futuro della tecnologia indossabile, la domanda dovrebbe essere non quali malattie cureranno, piuttosto «che cosa non dovremo più curare». “I vari wearable che stiamo testando e provando permetteranno in futuro un controllo di tutti i parametri vitali di base dei pazienti, specialmente cronici, riducendo, tramite un monitoraggio costante, l’insorgenza di acuzie che determinerebbero un ricovero. La tecnologia pertanto potrà prevenire il deterioramento clinico del paziente consentendoci di intervenire per tempo in modo preventivo”. 

E il sistema, invece, come cambierà? Alberto Sanna ha una visione chiara, fatta di Intelligenza Artificiale, cure personalizzate e una rivoluzione nel concetto stesso di servizio. “L’organizzazione dei servizi di assistenza e cura che sempre più vedranno le strutture sanitarie si trasformeranno in servizi distribuiti sul territorio, invertendo così il verso dell’erogazione del servizio: non più il paziente verso l’assistenza, ma l’assistenza verso il paziente con tutte le implicazioni organizzative che ciò comporta. Solo quando il sistema avrà fatto un passo avanti nella riorganizzazione complessiva dei servizi questa rivoluzione potrà considerarsi realmente efficace”. Insomma, ci sono ancora limiti da superare e prospettive da inseguire: il futuro è pronto. 


Leggi anche: Wearable: dispositivi e tecnologie indossabili per la disabilità

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Kevin Ben Ali Zinati
Studente del Master in Comunicazione della Scienza "Franco Prattico" della SISSA e giornalista freelance, ha una laurea in Lettere Moderne. Scrive principalmente di sport e scienza. Ama la musica e i film, gioca a tennis e corre maratone.