“Ci vorrebbe il muro”, dice JC mentre passiamo vicino al confine. Il Messico è a un passo, se allungo il braccio sconfino, letteralmente. Un nodo del filo spinato mi si attacca alla maglia ricordandomi che, nonostante il paesaggio sia un magnifico continuum di deserto, esiste una linea di separazione fra le colline del Sonora messicano e quello dell’Arizona. Eppure è tutto uguale: stesse colline, stessi alberi, stesa splendida natura che si estende a perdita d’occhio incurante del limite fra i due paesi, la stessa che caratterizza i numerosi ettari del ranch. Ma, decisamente, agli occhi di JC non è la stessa.
All’ombra di un’invidiabile collezione di cappelli da cowboy, che fa bello sfoggio di sé sul muro della residenza del ranch, spendo qualche ora a guardare i filmati, ripresi dalle cameratraps nel ranch, degli scout che strisciano sotto il confine portando gente, droga o solo per una ricognizione. Questa è la realtà qui, e il muro secondo JC, è l’unica soluzione. Che quel muro poi oltre alle persone (?) possa bloccare i movimenti della fauna non rientra nelle più urgenti preoccupazioni di JC.
“Non ci sono parole che possano raccontare lo spirito nascosto del deserto che possa rivelare il suo mistero, la sua malinconia e il suo fascino. La nazione si comporta bene se tratta le risorse naturali come beni che deve consegnare alla generazione successiva, accresciute e non svalutate. Conservazione significa sviluppo tanto quanto protezione” diceva Roosvelt, a fargli eco il presidente Johnson, qualche tempo dopo: “una volta che il nostro splendore naturale è distrutto, non potrà mai essere riconquistato. E una volta che l’uomo non potrà più camminare con la bellezza o meravigliarsi della natura, il suo spirito appassirà e il suo sostentamento andrà sprecato”.
Wilderness in America
Oggi il Presidente ha ben altra idea della gestione del più grande patrimonio americano: la wilderness. È la dimensione dello spazio, qui, che fa la differenza, quello vuoto, quello che, privo di noi, è ancora immenso selvaggio. Pronunciamo timidamente ‘wilderness’ in Europa, orgogliosi di quegli ultimi scampoli, ma consapevoli che la dimensione vera di quella parola è un’altra. Eppure, nonostante le molte aree – se non completamente almeno in buona parte – selvagge siano il carattere di questo paese, il rapporto con questa natura è stato d’amore e odio.
L’eradicazione dei grandi predatori ha spopolato le montagne e i boschi del paese all’inizio del secolo scorso e orsi, lupi, leoni di montagna, coyote, hanno fatto le spese di quell’aspettativa americana di elevata sicurezza. Eppure oggi, nonostante l’assetto politico sembri dimostrare il contrario, i ricercatori notano un’interessante virata nei valori della popolazione nei confronti della fauna selvatica: oggi i tradizionalisti, ovvero quelli che pensano che gli animali siano una mera risorsa a uso e consumo degli uomini, rappresentano il 28% della popolazione, mentre i mutualisti, quelli che, generalizzando, sono per la parità dei diritti fra uomini e animali, rappresentano il 35% della popolazione.
Come gli americani vedono la fauna selvatica
“La cosa sorprendente è che il declino dei tradizionalisti in alcuni stati sta avvenendo a un ritmo davvero rapido”, spiega Michael Manfredo, capo del Dipartimento di Dimensioni Umane delle Risorse Naturali della Colorado State University che, insieme alla Ohio State University, ha guidato uno studio, il primo e più grande nel suo genere, sui valori della popolazione nei confronti della fauna selvatica in tutti gli stati d’America. E questa rapidità – stiamo parlando di velocità intergenerazionali – è dovuta principalmente alla migrazione umana e ai cambiamenti nello stile di vita generati dalla modernizzazione postindustriale: reddito più alto, spostamenti in aree urbane e livelli di istruzione più alti.
Secondo Manfredo i valori si stabiliscono in età molto giovane e hanno un rate di cambiamento intergenerazionale, il che rende questi risultati particolarmente interessanti. I risultati dello studio mostrano che il 50 per cento dei residenti ispanici e il 43 per cento degli asiatici sono identificati come mutualisti, rispetto al 32 per cento dei bianchi, ed entrambi i gruppi hanno la metà dei tradizionalisti. Dal 2004 al 2018, nel complesso, gli stati occidentali hanno avuto una diminuzione del 5,7% dei tradizionalisti e un aumento del 4,7% dei mutualisti. Ma i risultati variavano considerevolmente da uno Stato all’altro: La California ha avuto un calo dei tradizionalisti dal 28 al 18 per cento, mentre il Nord Dakota è rimasto costante nello stesso arco di tempo.
Secondo Manfredo, quello verso la fauna selvatica è un effetto secondario di un più ampio spostamento di valori innescato dalla modernizzazione, che ha amplificato le tendenze antropomorfe, le esigenze di affiliazione sociale e, nel contesto urbano, ha allontanato le persone dal contatto quotidiano con gli animali. Tutto ciò ha fatto sì che i valori mutualistici trovassero una nuova, rafforzata espressione fra cui l’insidiosa tendenza a proiettare sugli animali tratti umani, favorita dall’indebolimento del contatto diretto.
In questo panorama di cambiamento, il mondo dei rancheros è ancora un mondo a parte in cui necessità e regole rimangono diverse. Esistono anche fra i ranchers piccoli nuclei in cui le esigenze di conservazione si stanno fondendo con successo agli obiettivi di gestione del ranch, ma la coesistenza nel mondo dei cowboy, che sia con il wild-life a due o a quattro zampe, rimane una questione delicata. E quando si parla di confini, di liberi spostamenti e di ‘altro’, se per gli animali un filo spinato è già troppo per gli uomini, in alcuni casi, è troppo poco.
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Immagini: Anna Sustersic