RUBRICHESTRANIMONDI

“Il Buco”, metafora esplicita della disuguaglianza nella società

Il film, da poco disponibile su Netflix, ritrae un esperimento sociale crudo al limite dell'horror per una fantascienza dal forte sapore sociale.

«Siamo al livello 48, significa che ci stiamo nutrendo degli avanzi di 94 persone». È la semplice brutalità dell’aritmetica a colpire Goreng. Il primo giorno nella prigione si rende conto che quello che possono mangiare lui e il suo compagno di cella è ciò che «quelli di sopra» hanno lasciato sulla piattaforma prima che scendesse di un piano. Fin dall’inizio, il film spagnolo incensato al Toronto Film Festival del 2019 e da poco disponibile su Netflix, mette esplicitamente lo spettatore di fronte al messaggio sociale. Ogni giorno una squadra di chef e sous chef in impeccabili uniformi preparano un vero e proprio banchetto pantagruelico che depositano sulla piattaforma al livello 0. Il suo muoversi verso il basso corrisponde a un allontanarsi dalla (presunta) superficie per calarsi in un inferno di affamati sempre più disperati e crudeli.

Non c’è una regola per cui si venga assegnati a questo o quel livello: ogni mese ci si sveglia casualmente in un piano diverso. Dalla comprensione del meccanismo (nonostante ci sarà chi sostiene, come Baharat, che non ci sia alcun meccanismo), dipende la sopravvivenza. E non è chiaro nemmeno perché le persone ci finiscano dentro: prigione? Alternativa all’ospedale psichiatrico? Quello che è sempre più chiaro allo spettatore e a Goreng è che l’unica cosa che conta sia sopravvivere, per giungere alla fine del proprio periodo di detenzione vivo e lasciarsi tutto alle spalle.

Esperimento sociale

Non sappiamo quasi nulla nemmeno delle vite dei personaggi che Goreng incontra, a cominciare dal suo compagno di cella Trimagasi. E per questo il film assume il sapore scarno della parabola evangelica in cui le azioni contano più delle biografie. In questo senso, Il buco ripercorre alcune piste già viste in film di successo come Snowpiercer del fresco premio Oscar Bong Joon-ho, il culto Il cubo (anch’esso ambientato in una strana prigione dove la collaborazione tra umani non è facilmente raggiunta), e non manca di citare Delikatessen e il Pranzo di Babette. Al centro c’è un gigantesco esperimento sociale, che rispecchia il nostro mondo di oggi. Il cibo posto ogni giorno sulla piattaforma, infatti, sarebbe forse sufficiente per nutrire anche gli inquilini dei livelli più bassi. Ma l’ingordigia di chi occupa i piani più alti si traduce in un pochi che mangiano fino a scoppiare e livelli dove sulla piattaforma rimangono solamente i cocci dei piatti e dei bicchieri.

È la Terra dello spreco del cibo denunciato nel nostro Paese da progetti come Last Minute Market che raccoglie le eccedenze di cibo perché possano trovare una via diversa dalla pattumiera. Secondo la FAO, oggi circa un terzo del cibo prodotto a livello mondiale va perduto o viene sprecato. Una quantità enorme che diventa vergognosamente alta se messa in relazione agli 800 milioni di persone che ogni giorno non raggiungono il numero minimo di calorie per una vita fuori dal rischio fame. Questi due fatti, che si riflettono nella sceneggiatura di David Desola e Pedro Rivero, dovrebbero essere sufficienti a portarci tutti sulla strada di una ripartizione più equa delle risorse alimentari. Ma anche l’esperienza di un mese nei livelli più bassi, non sembra sia sufficiente a far cambiare abitudini. Come avviene nella nostra realtà, nella quale siamo sordi e ciechi di fronte agli appelli delle istituzioni internazionali per cancellare la fame nel mondo.

Il senso di una società

Alla superficie della metafora nutrizionale si aggancia senza troppo girarci attorno il tema del perché l’uomo continui a comportarsi in questo modo. Sembra di vedere combattere sullo schermo due concezioni diversi della società. Da una parte una visione più “buonista”, secondo la quale la società è basata su di un contratto sociale (Jean-Jacques Rousseau) tra gli uomini che decidono di non ammazzarsi l’uno con l’altro per costruire un bene comune. È l’idea che l’uomo sia naturalmente buono e che possa usare quindi le armi della persuasione e della ragione per regolare la vita in comune. Al suo opposto c’è un’idea di uomo fondamentalmente animalesca, homo homini lupus come suggerisce dall’età classica Plauto. Per questo motivo, la violenza deve essere esercitata solamente dallo Stato, che impedisce in questo modo che l’umanità degeneri rapidamente in una guerra di tribù assassine. O peggio, in una guerra di individui senza morale che non hanno altro scopo, se non quello di garantirsi la sopravvivenza a qualsiasi costo.

Da questo punto di vista, la morale de Il buco sembra essere estremamente pessimista. Hanno fallito i re e le regine, hanno fallito le dittature e le democrazie, e hanno fallito anche le istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e la FAO: la disuguaglianza, Piketty docet, rimane la caratteristica dominante del mondo in cui viviamo. Nonostante abbiamo alle nostre spalle nella storia un numero vastissimo di giganti del pensiero, della politica, dell’arte e del progresso scientifico che dovrebbero teoricamente garantirci di avere l’arsenale di armi più vasto mai avuto a disposizione dall’umanità per combattere i malanni che ci affliggono.

 


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Marco Boscolo
Science writer, datajournalist, music lover e divoratore di libri e fumetti datajournalism.it