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Violenza sulle donne e lockdown: uno scenario ancora incerto

In paesi come Sudan del Sud, Cina e Stati Uniti i gruppi che si occupano di violenza domestica hanno riferito che misure come la quarantena e l'allontanamento sociale hanno aumentato il rischio, da parte delle donne, di essere esposte a violenza. Cosa sta succedendo in Italia?

Come è ormai drammaticamente chiaro, la violenza di genere (anche se considerata nella sola accezione di violenza nei confronti della donna da parte del proprio partner) ha un profondo impatto a livello globale: dati provenienti da oltre 80 Paesi suggeriscono che circa un terzo delle donne che è stata in una relazione a lungo termine ha subìto almeno una volta violenza da parte del proprio marito/compagno. Una situazione di per sé drammatica, che peggiora durante le esperienze di crisi sociali prolungate (come suggeriscono, ad esempio, i dati che sono stati raccolti durante la guerra civile del Sudan del Sud, o nei Paesi dell’Africa occidentale colpiti, negli ultimi anni, da ondate epidemiche di ebola).

I primi dati dall’estero e la situazione in Italia

Questo scenario sembra essere confermato anche per quanto riguarda la situazione di isolamento sociale imposta dalla pandemia globale di COVID19, almeno da quanto trapela dai primi report arrivati dalla provincia cinese di Hubei, i cui dati sono riportati in uno studio della Columbia University Mailman School of Public Health da poco pubblicato sulla rivista Developing World Bioethics.

I gruppi che si occupano di violenza domestica nella regione cinese hanno infatti riferito che misure come la quarantena e l’allontanamento sociale hanno aumentato il rischio, da parte delle donne, di essere esposte a violenza, poiché il confinamento negli spazi fisici e i tracolli economici e sanitari che hanno investito la regione hanno elevato i livelli di stress domestico.

Nelle scorse settimane ci sono stati diversi lanci di agenzia che, sull’onda di dati provenienti da alcune città degli Stati Uniti, hanno dipinto, anche per il nostro Paese, un quadro analogo.
Tuttavia, la situazione potrebbe essere più sfaccettata e incerta di quanto questi primi dati possano far credere: “Il numero di contatti e richieste di aiuto, così come quello degli accessi al pronto soccorso per ragioni legate a violenze domestiche, sembra essere diminuito – spiega la Professoressa Patrizia Romito, esperta internazionale sul tema della violenza sulle donne e docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste. Questo non vuol dire necessariamente che anche le violenze siano diminuite, ma la realtà è che non sappiamo se sono aumentate, perché a oggi questi dati non sono completi: solo tra qualche mese potremo confrontare i dati di questo periodo con lo stesso dello scorso anno”.

Se una mappatura a livello nazionale è ancora prematura, una prima conferma della profonda incertezza che caratterizza questa situazione arriva dalla testimonianza di Tatjana Tomicic, operatrice di accoglienza presso il Centro antiviolenza G.O.A.P. di Trieste: “non abbiamo avuto un aumento di segnalazioni da parte di terzi, né un aumento di richieste di aiuto da parte di nuove donne. Anzi, nel periodo dal 2 marzo al 5 aprile abbiamo avuto un calo di circa il 50% (16 nuove donne, a fronte di 27 nello stesso periodo del 2019). Da quello che sappiamo anche gli accessi al pronto soccorso di Pordenone sono quasi azzerati, ma per ora non sappiamo spiegarci questo calo, ci sono diverse ipotesi plausibili”.

(Forse) meno casi, ma perché?

A oggi, quindi, non ci sono dati che dicono che il periodo di confinamento aumenta la violenza nei confronti del partner, e anche se il pensiero comune potrebbe portare a una previsione semplicistica in tal senso, in realtà le motivazioni psicologiche che si celano dietro questa forma di violenza sono molto complesse: “la violenza contro le donne perpetrata dal partner, in ambiente domestico, ha varie sfaccettature – prosegue infatti la Professoressa Romito – c’è la violenza fisica, una realtà che esiste ed è drammatica ma non è la forma più comune, anche se è molto rappresentata anche a livello di campagne di comunicazione. C’è però anche la violenza psicologica, quella sessuale, la violenza economica, o ancora la violenza che si esplicita in comportamenti di stalking (tipici del post separazione). Sempre di più, quindi, capiamo che al centro della violenza domestica – e anche in quella che avviene nelle fasi di post-separazione, a riprova del fatto che spesso gli atti violenti non si esauriscono con l’allontanamento della vittima – c’è una volontà di dominazione e controllo da parte dell’uomo”.

In questo momento in cui tutti sono chiusi a casa, quindi, per ipotesi potrebbe esserci paradossalmente meno violenza, perché vengono meno le ragioni stesse del sopruso in quanto il controllo sulla donna – che sta sempre in casa e se lavora lo fa tra le mura domestiche, non può telefonare ad altre persone se non sotto l’ascolto del partner – è, di fatto, continuo (senza quindi che si possano generare tensioni e conseguenti manifestazioni di rabbia e violenza).

Certo è che la diminuzione delle violenze denunciate non ha niente a che vedere con una ridotta attività dei centri antiviolenza, che anzi sono più che mai attivi: “Innanzitutto continuiamo a fare i colloqui telematici con le donne che avevano già avviato un percorso prima del lockdown” spiega Tatjana Tomicic. Ma anche se il telelavoro è, per ovvie ragioni, lo strumento preferito (con relativo potenziamento della risposta telefonica, che ad esempio per il GOAP di Trieste è attiva per 13 ore al giorno), non mancano le attività di incontro più tradizionali, adattate alla situazione straordinaria dettata dalla pandemia in corso: “Per i primi colloqui di emergenza siamo riuscite a dotarci di dispositivi di protezione individuale e prodotti idonei alla sanificazione degli ambienti. Cerchiamo di limitare l’ingresso (comunque su appuntamento) a un unico spazio fisico. Per le situazioni che necessitano di un’ospitalità protetta, poi, abbiamo sempre attiva la convenzione con un residence cittadino dove le donne vengono ospitate in piccoli appartamenti”.

Il timore per il “dopo-quarantena”

Se la guardia è sempre alta, e gli strumenti per fronteggiare la violenza domestica sono attivi e funzionanti, quello che appare evidente fin da ora è che le vere problematiche insorgeranno finito il lock-down: “ci sarà molto probabilmente una grave crisi dal punto di vista economico, molte persone perdoneranno il lavoro e, quindi, ci saranno moltissime situazioni di donne che non possono fare un percorso di allontanamento per motivi economici- spiega la Professoressa Romito- Tra l’altro ci sono dei dati che vengono da ricerche nazionali britanniche che mostrano come ci sia stato un aumento della violenza del partner nei confronti delle donne a seguito della crisi economica del 2008”.
L’altra grande problematica a seguito di un’eventuale crisi economica, in un’ottica di welfare, sarebbe legata a quella delle risorse disponibili, che presumibilmente saranno indirizzate presso altre strutture sociosanitarie, piuttosto che sui centri antiviolenza.

Anche per questo è cruciale, ribadisce ancora una volta la Professoressa Romito, “avere dati affidabili, che permettono di capire qualcosa sui contesti in cui le violenze avvengono, e sui modi in cui possiamo fare prevenzione in modo efficace”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Marcello Turconi
Neuroscienziato votato alla divulgazione, strizzo l'occhio alla narrazione digitale di scienza e medicina.