Carne di pollo: la cuociamo troppo poco e ne risente la sicurezza
Il colore non dice nulla. È importante guardare la consistenza dell’interno della carne: quando è fibrosa e non lucida, è sicura.
A fine aprile 2020 la rivista PLOS ha pubblicato i risultati di uno studio condotto dall’Istituto norvegese per la ricerca alimentare, della pesca e dell’acquacoltura, che evidenzia un problema di sicurezza alimentare non da poco: i modo più comuni per cucinare il pollo che seguiamo a casa – per il pollo alle mandorle, al limone, alla cacciatora, alla diavola – non sono sufficienti a garantire la sicurezza del consumatore dal proliferare di molti agenti patogeni. Le raccomandazioni sulla cosiddetta doneness – un indicatore di quanto accuratamente è cucinato un taglio di carne, basato sul colore, la succosità e la temperatura interna durante la cottura – sono, secondo lo studio, insufficienti.
Il pollo può ospitare, fra gli altri, patogeni batterici Salmonella e Campylobacter e, se è vero che alte temperature possono uccidere questi microbi, è questione di tempo: una scottata a fuoco alto non significa che la carne sia sicura. Lo studio si è basato su interviste a 3.969 famiglie private in cinque paesi europei (Francia, Norvegia, Portogallo, Romania e Regno Unito) su come erano soliti cucinare il pollo e su quali parametri utilizzavano per capire quando la carne fosse cotta.
Il pollo emette sugo? Non basta
L’analisi ha indicato che il controllo del colore interno della carne di pollo è il modo più comune per giudicare la cottura: è utilizzato da metà delle famiglie intervistate. Altri metodi comuni includono l’esame della consistenza della carne o del colore del sugo. Eppure, i ricercatori hanno condotto esperimenti di laboratorio per testare l’efficacia reale di queste tecniche per giudicare la doneness, osservando che il colore e la consistenza non sono indicatori affidabili di sicurezza: il colore interno del pollo cambia a una temperatura molto più bassa rispetto a quella necessaria per uccidere i patogeni. Non basta insomma che il pollo da rosa diventi bianco per essere sicuri che sia cotto.
I termometri alimentari possono servire, anche se dall’indagine emerge che sono poco utilizzati dalle famiglie. Il problema è che la superficie della carne di pollo può ancora ospitare agenti patogeni vivi dopo che l’interno è stato sufficientemente cotto. Il consiglio è tenere d’occhio la consistenza dell’interno della carne: quando è fibrosa e non lucida, significa che ha raggiunto una temperatura sicura.
Servono – concludono gli autori – raccomandazioni aggiornate che garantiscano la sicurezza tenendo conto delle abitudini dei consumatori e del desiderio di evitare il pollo troppo cotto, che diventa stopposo, secco e quindi non più gradevole. Per ora, i ricercatori raccomandano di concentrarsi sul colore e sulla consistenza della parte più spessa della carne, oltre a garantire che tutte le superfici raggiungano temperature sufficienti.
Come avviene la contaminazione alimentare
Si contano oggi più di 250 tossinfezioni alimentari causate da diversi agenti patogeni come batteri, virus e parassiti. La contaminazione dei cibi può avvenire in molti modi. Alcuni microrganismi sono presenti negli intestini degli animali sani, che durante la macellazione possono entrare in contatto con gli operatori. Frequenti sono le trasmissioni di patogeni nella fase di manipolazione degli alimenti sia per contatto diretto con le mani che con gli utensili utilizzati per preparare e impacchettare.
Dobbiamo tenere presente che un cibo cotto è considerato sicuro dato che la maggior parte dei microrganismi non resiste a temperature superiori ai 60-70 gradi, ma può contaminarsi se si mette accanto a cibi crudi, inclusa frutta e verdura, che possono contaminarsi se lavate o irrigate con acqua contaminata. Inoltre, grande importanza rivestono le condizioni in cui i cibi sono mantenuti durante le varie fasi di conservazione: la catena del freddo, ad esempio, previene lo sviluppo e la moltiplicazione di alcuni microrganismi, che per essere tossici necessitano di una popolazione molto numerosa.
Quante infezioni alimentari avvengono in Europa
L’organismo che monitora l’andamento delle zoonosi (così si chiamano le malattie infettive che passano dall’animale all’uomo) in Europa è l’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare. Nell’ultimo rapporto annuale, pubblicato a dicembre 2019 , EFSA evidenzia che nel 2018 gli Stati membri dell’UE hanno segnalato 5.146 focolai di origine alimentare che hanno colpito 48.365 persone. Un focolaio si verifica quando almeno due persone contraggono la stessa malattia consumando lo stesso alimento o bevanda contaminati. Quasi un focolaio su tre in UE nel 2018 è stato causato da Salmonella, e in testa troviamo la Slovacchia, la Spagna e la Polonia, che da sole rappresentano il 67% dei 1.581 focolai di Salmonella.
EFSA precisa che la prevalenza di flussi di Salmonella nelle galline da riproduzione, nelle galline ovaiole, nei polli da carne e nei tacchini da ingrasso è diminuita negli ultimi anni. È la Campilobatteriosi, tuttavia, l’infezione gastrointestinale più comunemente segnalata nell’uomo, con 346 mila casi, seguita dalla salmonellosi con 91 mila casi solo nel 2018.
Un problema emergente è l’Escherichia coli. Le infezioni da E. coli che producono tossine Shiga nell’uomo sono state la terza zoonosi più comunemente segnalata nell’UE e sono notevolmente aumentate dal 2014 al 2018. La yersiniosi è stata la quarta zoonosi più frequentemente segnalata negli esseri umani nel 2018 con una tendenza stabile nel 2014-2018. Sono aumentati invece i casi di listeriosi confermati e in maniera copiosa le infezioni da virus del Nilo occidentale nell’uomo.
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