Guarire giocando: la scienza che studia VR e videogiochi per uso terapeutico
La decisione della Food and Drug Administration di approvare l’uso di un videogioco come medicina apre un futuro in cui potremo migliorare la vita di tante persone. Ma già il presente della ricerca scientifica in questo ramo è vivace e sta dando risultati concreti. Ne abbiamo parlato con una game researcher, Federica Pallavicini.
Il videogioco negli ultimi anni sta abbattendo molti pregiudizi e barriere, contaminando anche ambiti apparentemente distanti come quello della medicina. Recentemente la Food and Drug Administration (FDA), l’ente statunitense responsabile per la regolamentazione di prodotti alimentari e farmaceutici, ha rilasciato un comunicato che ha sorprendentemente come tema proprio un videogioco. L’FDA ha, infatti, approvato l’uso del primo game-based digital therapeutic device, ovvero il primo videogioco a essere commercializzato e prescritto come un farmaco.
Il gioco in questione è EndeavorRX, già in sviluppo da diversi anni, e con l’obiettivo di essere uno strumento terapeutico utile per aumentare l’attenzione in pazienti pediatrici con sindrome da deficit di attenzione (ADHD), una condizione con cui convivono, già solo negli Stati Uniti, 4 milioni di bambini nella fascia di età tra i 6 e gli 11 anni. In EndeavorRX, il paziente/giocatore controlla una navicella e ha l’obiettivo di evitare gli ostacoli lungo il percorso fino ad arrivare alla fine. È stato osservato, dopo diversi anni di studio, come questa semplice meccanica ludica abbia il vantaggio di favorire il coinvolgimento dell’utente, nel quale si assiste a un aumento dell’attenzione e della concentrazione, aspetto problematico nei bambini con ADHD.
Nonostante questi risultati molto incoraggianti, l’FDA afferma come il gioco non sia da intendere come un sostituto delle terapie più tradizionali, ma come uno strumento terapeutico in più. Sebbene quello di EndeavorRX sia un riconoscimento ufficiale, la ricerca sull’uso terapeutico di videogiochi è già da anni molto vivace. Basta infatti pensare che le meccaniche ludiche, che quando sono applicate in contesti anche diversissimi dal gaming vengono raggruppate sotto la definizione-ombrello gamification, sono alla base di progetti ideati e concepiti per avere un impatto reale sulla salute delle persone. È il caso del progetto Mirrorable, in cui ricerca scientifica, tecnologie riabilitative e design inclusivo si sono interfacciate nella realizzazione di una piattaforma online per aiutare i bambini che hanno subito danni cerebrali in età precoce, con conseguenti deficit a livello motorio. L’ultima frontiera tecnologica dei videogiochi a uso terapeutico, però, è senza dubbio quella della realtà virtuale. Per cercare di gettare un po’ di luce su questo ambito della ricerca scientifica abbiamo intervistato Federica Pallavicini, psicologa clinica e assegnista di ricerca presso Università Milano-Bicocca, con una decennale esperienza nella ricerca delle applicazioni cliniche della realtà virtuale e dei videogiochi.
Nel tuo sito ti definisci virtual reality and videogame researcher. Cosa significa e come sei diventata ricercatrice in questo ramo?
Di formazione sono psicologa clinica e ho iniziato ad avvicinarmi a questo campo collaborando con Giuseppe Riva in ATN-P Lab (Applied Technology for Neuro-Psychology Laboratory), un laboratorio dell’Istituto Auxologico di Milano, che già si occupava dell’utilizzo della realtà virtuale per la cura di alcuni disturbi psicologici, soprattutto disturbi alimentari. Da lì ho iniziato a collaborare con il suo gruppo di ricerca ad alcuni progetti europei. Dopo il dottorato sono passata come assegnista di ricerca all’Università Milano Bicocca. Lì ho ampliato i miei interessi anche fuori dal campo sanitario, andando ad analizzare diversi aspetti del gaming, di cui sono sempre stata appassionata.
A quel punto però ho cominciato a vedere i videogiochi anche sotto un’altra ottica e a investirci dal punto di vista scientifico. Il mio lavoro si è così trasformato in quello che faccio oggi, ovvero utilizzare sia realtà virtuale che videogiochi a supporto del benessere mentale di chi ne fruisce. Ad esempio, nel 2013 con l’Istituto Auxologico Italiano abbiamo sviluppato NeglectAPP, un gioco per tablet per la riabilitazione cognitiva in seguito a danni cerebrali da ictus, che è stato testato con successo su alcuni pazienti dell’Ospedale di Novara. Mi occupo anche di studiare le applicazioni in campo psicologico di videogiochi nati con uso commerciale come Detroit: Become Human, un gioco di Sony uscito un paio di anni fa. In questo caso abbiamo studiato come potesse migliorare nel giocatore alcune capacità legate all’empatia.
Come si può fare ricerca scientifica su un videogioco?
Di solito quello che facciamo è creare un protocollo. Consideriamo ad esempio di studiare l’effetto di un gioco sulla gestione dello stress. In questo caso possiamo avere due opzioni. Possiamo fare degli studi sperimentali per valutare l’efficacia di alcuni giochi commerciali per ridurre lo stress e l’ansia nei giocatori, oppure sviluppare un game ad-hoc basato su esperienze simili già presenti in letteratura scientifica. Per esempio, sappiamo dalla ricerca che maggiore è il livello di movimento in un ambiente virtuale, maggiori sono le sensazioni piacevoli provate dall’utente. Questo vuol dire che in fase di sviluppo ci concentreremo molto su quegli aspetti che studi precedenti hanno identificato come rilevanti.
Durante la tua attività di ricerca hai avuto a che fare sia con giochi e app più tradizionali che con prodotti in realtà virtuale. Quali sono le differenze sostanziali tra queste tipologie di giochi e come vengono vissute dall’utente?
Sia a livello di utilizzo che a livello emotivo-cognitivo si è osservato che un visore, che isola l’utente dagli stimoli esterni, provoca un senso di immersione nel gioco maggiore così come un aumento delle emozioni positive, anche se confrontato con l’utilizzo dello stesso gioco senza visore. Inoltre, il senso di flow è più alto rispetto a un gioco normale. Questo è molto importante quando cerchiamo di avere un impatto positivo sul giocatore. Questi sono aspetti fondamentali non solo a livello di game design, quindi, ma anche a livello terapeutico. Infatti, quando valuteremo che strumento usare per creare un gioco che abbia una maggiore influenza positiva sull’utente, andremo a considerare tutti questi studi d’impatto che indicano la realtà virtuale come uno strumento molto efficace in quest’ottica.
Quando e come è successo che il mondo accademico ha iniziato a interessarsi ai videogiochi e al loro impatto in ottica terapeutica?
I primi studi, per quanto possa sembrare strano, risalgono addirittura agli anni ’80. Pac-Man, ad esempio, fu studiato come mezzo per l’allenamento cognitivo, sopratutto in ambito militare. Gli psicologi notarono quasi immediatamente come quel semplice gioco potesse aumentare la soglia di concentrazione di chi lo usava. Successivamente, negli anni ’90, ci si è più concentrati sui possibili effetti negativi, soprattutto per quel che riguarda l’aggressività. Una svolta c’è poi stata quando sono stati pubblicati su Nature alcuni studi riguardo i videogiochi del genere action e sparatutto e su come questi aumentassero la soglia d’attenzione del giocatore. Da quel momento si sono indagati soprattutto sullo studio degli effetti cognitivi dei giochi: memoria, attenzione, capacità decisionali. Recentemente si sta studiando di più su possibili riscontri positivi nella regolazione emotiva, ad esempio, nella diminuzione dello stress.
I tuoi colleghi psicologi che ne pensano della ricerca scientifica in questo ramo?
Nel 2009, quando ho iniziato a parlare nei convegni di psicologia di realtà virtuale per la gestione dello stress, non ho avuto un’accoglienza positiva. C’era davvero tanto scetticismo, anche perché non era una tecnologia conosciuta né diffusa. Le cose sono cambiate quando, attorno al 2015, la realtà virtuale ha cominciato a essere più comune suscitando molto interesse in ambito accademico. Ma non solo. Per esempio, adesso con la crisi COVID mi sono confrontata con colleghi che manifestano la difficoltà di gestire di persona i pazienti. Sono, quindi, sempre più interessati a queste modalità che consentirebbero un supporto terapeutico per i pazienti anche da remoto.
A proposito di COVID e VR, da poche settimane si è conclusa con successo una campagna fondi a sostegno di un tuo progetto legato al tema, MIND-VR. Di che si tratta?
In realtà non è un progetto solo mio, ma è concepito insieme alle colleghe Chiara Caragnano e Fabrizia Mantovani. Allo sviluppo hanno poi partecipato anche molti professionisti del settore e un gruppo di sviluppatori. MIND-VR nasce, inizialmente, per fornire un supporto psicologico a persone con disturbi d’ansia e disturbi post-traumatici da stress e per prevenire l’insorgere di queste condizioni. Lo abbiamo concepito come uno strumento da portare gratuitamente negli ospedali. Diretto, quindi, a pazienti di alcuni reparti tipo oncologia, pediatria ma anche utilizzabile nel caso di esami come la risonanza magnetica. Poi è arrivata l’emergenza COVID, gli ospedali sono diventati off-limits e le persone che potevano avere più bisogno di un supporto di questo tipo sono diventati medici e infermieri, che hanno vissuto settimane di grande stress. È stato un modo per ringraziarli in un certo senso. Per fortuna il progetto è riuscito a raggiungere l’obiettivo di finanziamento e ora siamo in contatto con realtà milanesi, come l’Istituto Neurologico Carlo Besta. In questi giorni stiamo mettendo a punto il protocollo che partirà fra settembre e ottobre.
Come vedi il futuro della ricerca scientifica in questo ambito nei prossimi anni?
Il futuro che vedo è in costante cambiamento. È dal 2015 che praticamente ogni settimana esce uno studio con nuovi risultati sull’applicazione terapeutica della realtà virtuale. Anche a livello tecnologico si stanno facendo passi da gigante. Se penso ai visori che usavo nel 2008 quelli di oggi sono di tutto un altro livello. Il prezzo di un visore è passato da 3000 a 300 dollari. Ovviamente vedo i videogiochi, diventati una realtà importantissima sotto tanti punti di vista, anche quello psicologico. Credo ci sarà un boom in questo senso. Ormai la letteratura scientifica è talmente ampia che pure i più scettici cominciano a porsi qualche dubbio. La VR diventerà, inoltre, sempre più immersiva. Si sta già lavorando a visori che integrano odori e temperatura. Magari passeremo da un visore a tute indossabili, provando sensazioni ben oltre quelle uditive e visive. A livello terapeutico queste tecnologie potrebbero avere un potenziale enorme e migliorare la vita di tante persone, in modi che ora neanche immaginiamo. Già questo è un buon motivo per studiarle e capirle.
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