I numeri delle microplastiche, un pericolo sottostimato
Ne ingeriamo circa 5 grammi a settimana e, in Europa, oltre il 70% dei campioni di acqua di rubinetto ne contiene.
È di pochi giorni fa la notizia del primo ritrovamento di microplastiche in organi umani. Le microplastiche sono frammenti di plastica del diametro compreso tra i pochi decimi di millimetro fino ai cinque millimetri che vengono immessi in natura attraverso lo scorretto smaltimento del materiale che poi si frantuma in piccoli pezzi oppure attraverso le acque reflue (in quanto in alcuni prodotti di uso comune sono già contenute nelle dimensioni indicate). La loro presenza è stata rilevata anche nel pesce e nei molluschi e, secondo uno studio dell’Università di Newcastle (Australia), ne ingeriamo in media 1769 particelle a settimana solo attraverso l’acqua che beviamo, per un totale di circa 5 grammi, l’equivalente di una carta di credito. Le microplastiche hanno invaso le Maldive, l’Antartide, sono state trovate tra le nevi della Valle d’Aosta e abbiamo visto quanto la loro pericolosità sia sottostimata. Vediamo nel dettaglio tutti i numeri delle microplastiche.
Cosa sono le microplastiche
Secondo i dati di Plastics Europe, l’associazione dei produttori di materie plastiche europei, nel 2018 sono stati prodotti 359 milioni di tonnellate di plastica globalmente, in aumento rispetto all’anno precedente (348 milioni di tonnellate). La stessa associazione però, riporta dei dati sul riciclo molto positivi: un aumento importante negli ultimi anni tanto da arrivare a 9,4 milioni di tonnellate di plastica riciclate in Europa nel 2018 (contro gli 8,4 milioni del 2016).
Sebbene il riciclo dei rifiuti plastici sia in aumento, una parte di essi finisce inequivocabilmente nell’ambiente, riducendosi in piccoli frammenti e generando, appunto, le microplastiche. Il termine “microplastiche” è diventato di uso comune alla metà degli anni 2000, ma già dagli anni ’70 i ricercatori avevano notato come negli oceani fossero già presenti piccoli frammenti di plastica, in particolare di polistirene, come riferisce uno studio del Programma Ambientale delle Nazioni Unite.
Fa notare Greenpeace che le microplastiche non sono soltanto il frutto della frammentazione dei prodotti plastici più grandi, come contenitori o buste, ma possono provenire anche da detersivi, cosmetici e vernici che hanno al loro interno questi piccoli pezzi di plastica. Probabilmente non ce ne siamo mai accorti per la loro piccola dimensione, ma diversi prodotti di uso comune contengono al loro interno microscopiche particelle plastiche. Queste vengono inserite per esempio nelle creme per la loro azione esfoliante, oppure per aumentare l’effetto abrasivo nei detersivi per abiti e per incapsulare le fragranze negli ammorbidenti. Oppure ancora come additivi in molti prodotti chimici e fertilizzanti, nelle pitture e nelle vernici. Dal 1 gennaio 2020 l’Italia ha messo fuori legge il commercio di prodotti cosmetici contenenti microplastiche, ma sono ancora molti i Paesi che non l’hanno fatto e sono anche moltissimi i prodotti esclusi da questa normativa e che quindi continuano a presentare la plastica come ingrediente.
Le microplastiche possono provenire anche dall’industria. È il caso dei pellet di resina di plastica, piccoli pezzetti di plastica utilizzati dalle industrie per essere poi trasformati negli oggetti che utilizziamo tutti i giorni. In alcuni casi questi pellet vengono dispersi nell’ambiente durante il trasporto, finendo quindi nell’ambiente.
Come assumiamo le microplastiche
Lo studio della già citata Università di Newcastle, ripreso anche dal WWF, afferma che ingeriamo mediamente 5 grammi di plastica alla settimana, l’equivalente di una carta di credito. Ciò significa circa 21 grammi al mese e ben 250 grammi l’anno. Al momento non si conoscono gli effetti delle microplastiche sulla salute umana, in quanto la scoperta, effettuata dall’Arizona State University della presenza di microplastiche negli organi umani è piuttosto recente.
Ma come ingeriamo questa plastica? Innanzitutto bevendo acqua: che sia di rubinetto o in bottiglia è stato rilevato che le microplastiche sono molto probabilmente al suo interno: possiamo vedere come in alcuni Paesi del mondo la percentuale di campioni di acqua del rubinetto che presenta fibre di plastica superi a volte il 90%. È il caso per esempio degli Stati Uniti, dove si rilevano nel 94,4% dei casi. In Europa la percentuale è del 72,2% (fonte: WWF).
Un altro modo è tramite il cibo: quando mangiamo pesce o frutti di mare ingeriamo anche la plastica che a loro volta hanno ingerito. I mari contengono infatti grandi quantità di microplastiche, che vi arrivano tramite i fiumi o che vengono scaricate tramite le acque reflue delle navi, oppure che arrivano direttamente dalle spiagge. Mangiando frutti di mare a conchiglia come i molluschi per esempio, possiamo arrivare a ingerire fino a 182 microparticelle di plastica a settimana. Ingerendo sale, fino a 11.
Sempre più plastica intorno a noi
Come è possibile che ci sia tutta questa plastica? Per dare un’idea della quantità di plastica presente nell’ambiente, e in particolare nei nostri mari, Greenpeace segnala che un depuratore di una città di 1 milione di abitanti può rilasciare nell’ambiente ogni giorno fino a 160 milioni di microplastiche solo attraverso le acque reflue. Queste, finendo poi nei mari, finiranno nel circolo della catena alimentare. Secondo la stessa ricerca, circa il 30% delle specie di pesci e invertebrati in commercio per uso alimentare provenienti dal Mar Tirreno presentavano all’interno dei loro organi delle microplastiche.
Ogni anno 10 tonnellate di particelle di plastica si depositano nell’aria, afferma infine Forbes citando una ricerca francese, suggerendoci che anche solo respirando possiamo assumere all’interno del nostro corpo questi piccoli frammenti di plastica.
La plastica insomma, ci circonda ed è anche già dentro di noi. Ne abbiamo creata talmente tanta (dal 2000 a oggi ne abbiamo creata di più che dal 1950 al 2000) che ormai pervade la nostra vita, la usiamo per qualsiasi cosa (produrre oggetti, trasportare, imballare, eccetera…), ma la sua distruzione, anche della plastica cosiddetta “biodegradabile”, è ancora troppo lenta e troppo poco efficiente per far sì che la quantità di materiale che viene immessa in natura non danneggi l’ambiente e gli esseri viventi che vi abitano, essere umano compreso.
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