Stress psichico in periodo di pandemia Covid-19
Diversi studi nel mondo stanno analizzando la situazione generata dall'epidemia Covid a livello di salute mentale. Facciamo il punto
Lo scorso 10 ottobre, nel celebrare la giornata mondiale per la salute mentale, proclamata dall’Organizzazione mondiale della sanità, anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto riferimento al disagio psichico vissuto dai cittadini durante l’attuale pandemia: “Quest’anno, le vicende della pandemia hanno acuito la sofferenza delle persone affette da patologia psichica, spesso costrette a vivere lontano dalle proprie famiglie per ragioni terapeutiche e che si sono trovate in alcuni casi ad affrontare in solitudine gli effetti della chiusura”. Secondo i dati di una ricerca condotta da Elma Research per conto di Angelini Pharma, il 65% degli italiani, durante il lockdown, ha sofferto di problemi psicologici, anche gravi, al di là di preesistenti patologie. Anche un altro rapporto, condotto da Ipsos, conferma come negli ultimi mesi la percezione a livello mondiale di quale sia il maggior pericolo per la nostra società è la pandemia di Covid-19.
Il blocco totale, l’isolamento, la quarantena, il distanziamento sociale ovvero quelle che tecnicamente si chiamano “misure non farmacologiche” nella lotta a Covid-19 hanno un “impatto negativo sul benessere generale delle persone, sulle dinamiche della società e dell’economia” avvertono inoltre le linee guida dell’European Centre for Diseases Control (ECDC). “Di conseguenza – proseguono – dovrebbero essere utilizzate sulla base della situazione epidemiologica locale e avere l’obiettivo di proteggere gli individui più vulnerabili della società”. In questi mesi si sono moltiplicate le ricerche sull’impatto psicologico di queste misure, già sperimentate in Cina durante l’epidemia di SARS nel 2003, che aveva avuto dimensioni non paragonabili con l’attuale pandemia, 8.000 casi riportati e 774 decessi nel mondo.
Lo studio pubblicato su Lancet
Un articolo apparso sulla rivista Lancet all’inizio della pandemia di coronavirus ha sottolineato come i termini quarantena e isolamento vengano spesso usati in maniera intercambiabile nella comunicazione verso il pubblico. La quarantena è una limitazione dei contatti quando si è stati potenzialmente esposti a una malattia contagiosa per monitorarne l’eventuale insorgenza; l’isolamento è la separazione delle persone a cui è stata diagnosticata una malattia contagiosa per evitare che ne infettino altre.
Dopo episodi come disastri naturali, incidenti o attentati il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) è l’evento che viene maggiormente riscontrato, ma in situazioni di pandemia dovuta a virus, come l’attuale, le problematiche più frequenti sono depressione e disturbi d’ansia.
Lo studio pubblicato su Jama
Secondo una ricerca guidata da John W. Ayers, della Divisione Malattie infettive e Salute pubblica Globale dell’Università della California pubblicata su Jama Internal Medicine, negli Stati Uniti, nel periodo 13 marzo – 9 maggio 2020, le ricerche delle espressioni legate a stati acuti d’ansia – panic attack (attacchi di panico) e anxiety attack (attacchi d’ansia) – sul motore di ricerca Google sono aumentate complessivamente dell’11% rispetto alla media attesa in condizioni normali. “In pratica, durante i primi 58 giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza nazionale da parte di Donald Trump, si stimano circa 3,4 milioni di ricerche totali correlate ai temi dell’ansia acuta, 375.000 in più del previsto” afferma Benjamin Althouse dell’Institute for Disease Modeling (IDM) di Washington, finanziato e diretto dalla Bill&Melinda Gates Foundation. In numeri assoluti, “si tratta del maggior numero di ricerche internet legate agli attacchi di panico mai registrate negli ultimi sedici anni” sottolinea il ricercatore.
Purtroppo, la parola chiave panic attack non restituisce nei risultati della ricerca nessun presidio per il sostegno psicologico – ad esempio linee telefoniche di aiuto – sebbene Google sia stato pioniere nell’approccio “OneBox” per le ricerche legate alla salute mentale. Il valore di questo studio, sostiene Ayers, è poter dare un quadro “in diretta” della situazione: “Il sistema di sorveglianza di salute pubblica ha il limite di non poter fornire valori immediati e quantificabili sulle conseguenze della pandemia sulla salute mentale e, allo stato attuale, solo indagini teoriche” e su campioni limitati di persone che, invece, mai come in questo momento, hanno bisogno di aiuto e disponibilità di ascolto, specie le più fragili.
La situazione in Italia
Per portare un esempio concreto, il Servizio di Psicologia Territoriale dell’ULSS 9 Scaligera, durante il periodo di lockdown, ha ricevuto una media di 35 richieste di aiuto alla settimana, che sono aumentate con la “Fase 2”. Da giugno in poi, nonostante l’allentarsi delle misure restrittive a livello nazionale, il lavoro di supporto telefonico si è fatto inspiegabilmente più pressante e oggi, al solo accenno da parte delle autorità e dei media di una nuova stretta per prevenire i contagi, vi è un aumento delle domande di aiuto.
“Non ci aspettavamo una richiesta così elevata, anche perché, sebbene il servizio sia molto conosciuto sul territorio e dai medici di base, non avevamo dato grande comunicazione sui media del fatto che il servizio, sospesi gli incontri in presenza, sarebbe continuato con l’assistenza telefonica” racconta a OggiScienza Marcella Parise, psicoterapeuta responsabile del servizio di Psicologia territoriale del distretto dell’azienda sanitaria locale veneta. “Ci hanno chiamato persone che mai avevamo visto o conosciuto prima di questo momento, soprattutto moltissimi ragazzi in condizioni di disperazione che ci hanno raccontato esperienze drammatiche”. Il servizio offre una psicoterapia breve di cinque incontri per lavorare sul qui e ora: “Erano persone – prosegue Parise –, che fino a quel momento non avevano avuto particolari problematiche e che si sono trovate a sperimentare gravi difficoltà ad affrontare la situazione di isolamento, manifestando disturbi d’ansia molto forti, attacchi di panico, angosce di morte e, in quasi la totalità dei casi, problemi di insonnia importanti”. Con la fine del lockdown la situazione non è rientrata: “Registriamo situazioni di persone che da marzo non escono di casa” evidenzia la responsabile “o che hanno paura a intraprendere azioni semplici, come uscire per fare la spesa, e rinunciano a qualsiasi iniziativa perché hanno paura, vivendo in uno stato di isolamento indotto”.
Lo studio pubblicato su Lancet Psychiatry
Per ampliare il quadro, uno studio apparso su Lancet Psychiatry porta il caso della Gran Bretagna. Ai partecipanti di una delle più grandi indagini epidemiologiche al mondo, l’Understanding Society, è stato proposto online il questionario GHQ-12, che valuta l’insorgenza di sintomi come ansia e depressione in contesti nuovi che richiedono un importante adattamento del proprio stile di vita, in questo caso prima e dopo l’inizio dell’epidemia. I risultati dicono che nel mese di aprile, più di un quarto della popolazione inglese ha vissuto problematiche di disagio psicologico a causa del lockdown, in particolare le donne di età compresa tra i 16 e i 44 anni. Tuttavia, non tutte le fasce di popolazione, suddivise per stato socio-economico, hanno sperimentato allo stesso modo le conseguenze della chiusura forzata. Secondo l’interpretazione degli autori, le persone con preesistenti problematiche a livello psichico hanno subito maggiormente le conseguenze negative della pandemia e la situazione economica, come il tipo di abitazione, il reddito e l’appartenere a categorie a rischio ha fatto la differenza.
Luca Serafini, docente di psichiatria all’Università di Genova, non coinvolto nello studio, sottolinea come vi siano quattro tipi di categorie a rischio: persone che sono state a contatto diretto o indiretto con il virus, persone fragili per problematiche mediche preesistenti – incluse quelle psichiatriche –, persone che lavorano in prima linea ovvero personale medico e sanitario, persone che seguono le notizie sulla pandemia informandosi su più media. Queste categorie hanno maggiori probabilità di manifestare problemi come ansia, irritabilità, insonnia, frustrazione, isolamento, comportamenti autolesivi. Per quanto riguarda le condizioni abitative, vivere in una casa inferiore ai 60 mq, sprovvista di balcone, con una vista esterna limitata e non piacevole e con scarso ricambio d’aria, può aumentare fino al doppio la probabilità di sviluppare stati depressivi, mentre la scarsa resa lavorativa in regime di smart-working fino a quattro volte.
Come evolverà la situazione sul lungo periodo
“Conosciamo ancora poco degli effetti sulla salute mentale delle persone di questa situazione senza precedenti” racconta Serafini a OggiScienza, “i dati finora confermano quello che è stato per altre pandemie, come l’influenza spagnola del 1918: oltre ad ansia incontrollabile e attacchi di panico l’ipotesi di un aumento dei suicidi è reale, così come è accaduto in passato per situazioni di virus letali e ad alta diffusione”. L’incertezza generalizzata e la sensazione di non poter avere il controllo della propria vita e del proprio futuro a causa di un nemico invisibile “ci porta a rappresentare il prossimo come un potenziale nemico – perché potrebbe trasmetterci il virus – minando in modo profondo la fiducia delle persone che qualcosa possa migliorare. La quarantena, inoltre, è documentato che possa causare disturbo post-traumatico da stress anche a distanza di anni, ma quello che noi riscontriamo è che si manifesta in modo diverso da come avvenuto finora. A queste problematiche si aggiunge, inoltre, il rischio di un aumento dell’abuso di alcol, soprattutto a causa della solitudine”.
L’attuale ricerca, dunque, è concorde nel ritenere che ci dovremmo aspettare non solo il proseguire di questo disagio psichico nella popolazione, ma anche l’emergere di effetti a lungo termine legati alla recessione economica – soprattutto nelle fasce più deprivate della popolazione – come l’aumento dei tassi di suicidio e i ricoveri ospedalieri per malattie mentali. Mai come ora è necessario, come avverte del resto l’Istituto Superiore di Sanità nel suo rapporto, implementare la rete territoriale di assistenza per il sostegno psicologico della popolazione.
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