Quanto varia la qualità della vita nello spettro
Per alcune persone autistiche la qualità della vita percepita è bassa, ma per altre non lo è affatto. È ora di concentrarsi sulle necessità del singolo, per capire cosa fa stare bene e rende soddisfatti. Anche nella ricerca scientifica.
Ma facciamo un passo indietro: cosa significa qualità della vita? Secondo la definizione Treccani, è “la percezione che i soggetti hanno delle loro possibilità di usare al meglio le disponibilità, sia economiche sia culturali in senso lato, presenti nel loro universo di riferimento e di vita quotidiana”. Se qualcosa ci è diventato molto chiaro nel 2020 è che, da una persona all’altra, il concetto di qualità della vita percepita in tale universo di riferimento – il quotidiano di ognuno di noi – cambia sensibilmente.
Pensiamo allo smartworking, alla socialità differente, alla Didattica a Distanza. Cambiamenti profondi che hanno trasformato la vita di tutti i giorni, per alcuni in peggio, per altri in meglio. C’è chi non vede l’ora di poter riprendere serenamente i mezzi pubblici, andare in ufficio, immergersi nella folla, e chi invece ha trovato una nuova e positiva dimensione potendo ridurre le interazioni sociali e il contatto fisico, lavorando da casa, rallentando.
Parlare di qualità della vita diventa ancor più complesso entrando nell’ambito della salute mentale. Gli studi qualitativi, che grazie al frequente coinvolgimento dei diretti interessati permettono di esplorare la salute in modi diversi – e a volte rispondono a domande lasciate aperte dalle indagini quantitative -, ci hanno ad esempio mostrato che alcuni strumenti comunemente usati per valutare lo stato di salute generale (come EQ-5D e SF-6D) non sempre riescono a includere ambiti considerati importanti dalle persone con problemi di salute mentale. Tra questi ultimi troviamo benessere e malessere, salute fisica, controllo, autonomia e scelta, percezione di sé, relazioni e senso di appartenenza, attività, speranza o mancanza di speranza.
Come valutiamo allora questa qualità della vita? E come facciamo a capire se, per comprenderla, stiamo facendo le domande giuste?
Qualità della vita nello spettro
Un recente studio pubblicato su Autism ha esplorato questi aspetti nell’ambito dell’autismo, particolarmente complesso da studiare (e da raccontare) proprio per la grande diversità che si trova attraverso lo spettro, affiancata ad alcune caratteristiche condivise. In un’intervista al magazine Spectrum Eva Loth, professoressa associata di scienze forensi e del neurosviluppo al King’s College London e autrice senior della pubblicazione, spiega che “È molto importante considerare ogni persona e le sue condizioni individualmente, comprendere quale aspetto della qualità della vita è compromesso, il perché, e decidere con lei quale potrebbe essere la forma di supporto più utile”.
Lo studio fa parte del Longitudinal European Autism Project e ha coinvolto un totale di 573 persone tra i sei e i 30 anni, autistiche e non autistiche, con un obiettivo specifico: capire se le differenze individuali nel benessere percepito siano spiegate dai tratti autistici, da ansia e depressione o entrambi i fattori. Si stima, infatti, che il 20% degli adulti autistici abbia un disturbo d’ansia contro circa il 9% degli adulti neurotipici, e che la probabilità di sperimentare la depressione nel corso della vita sia quattro volte maggiore.
Secondo Loth e colleghi il nocciolo della questione è proprio qui: sono l’ansia e la depressione, non i tratti autistici in sé, a spiegare perché molte persone nello spettro sperimentano una minor qualità della vita. Per bambini e adolescenti, l’ansia legata alle difficoltà sociali è emersa come un aspetto molto importante. Che fare dunque di questa consapevolezza?
La chiave per capire meglio il problema è coinvolgere i singoli individui, scoprire quali aree della vita quotidiana creano problemi, quali sono considerate realmente importanti dalla persona e lavorare di conseguenza in modo “personalizzato”. Includendo queste attenzioni nei percorsi di supporto, in ogni aspetto legato al miglioramento della salute mentale, permettendo al singolo di prosperare nei modi e negli ambiti per lui/lei rilevanti.
Guardare alle cose che funzionano
Molti giovani adulti e adulti autistici, infatti, se la cavano bene e con il tempo vedono – così come accade alle persone neurotipiche – un miglioramento nella qualità della vita anche in quelle aree che, durante infanzia e adolescenza, potevano risultare più problematiche. Ad esempio la socialità, le performance scolastiche, la salute fisica, il senso di appartenenza a un gruppo, la comprensione della propria identità (spesso legata all’ottenimento di una diagnosi formale o all’accettazione di sé in quanto persona diversa, non sbagliata).
“Abbiamo mostrato che, nonostante per alcuni individui autistici il benessere fosse minore rispetto ai non autistici, molti autistici hanno detto di avere un buon livello di benessere”, concludono Eva Loth e colleghi. “Il nostro studio suggerisce che supporto e servizi per migliorare la salute mentale, in particolare i sintomi legati alla depressione, possano migliorare gli outcome per le persone autistiche anche in modo più diffuso”.
Molti studi si concentrano sull’individuare e quantificare le difficoltà, ma è altrettanto utile affiancare a queste conoscenze i dettagli sui punti di forza, le descrizioni – qualitative e quantitative – delle persone autistiche che considerano buona la propria qualità della vita. A fianco, per rendere gli studi scientifici sull’autismo realmente più partecipativi, andrebbero inclusi ricercatori autistici nella loro progettazione e realizzazione. Secondo lo psicologo e sociologo Damian Milton, autistico e ideatore del double empathy problem (ne ho scritto qui), quest’ultimo aspetto è cruciale per conferire alla ricerca sociale nell’autismo integrità etica ed epistemologica.
Altrettanto interessante su questo fronte è il punto di vista di Laurent Mottron, psichiatra e specialista nelle neuroscienze cognitive dell’autismo, nel cui laboratorio lavorano regolarmente scienziati autistici. Parlando della collega Michelle Dawson, autistica, già nel 2011 Mottron su Nature (in un articolo a oggi ricco di spunti) scriveva che “Da quando si è unita al laboratorio, Dawson ha aiutato il team di ricerca a mettere in discussione molti dei nostri approcci e assunti riguardo all’autismo, inclusa la percezione che sia sempre un problema da risolvere”.
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