In alto e al gelo, di Vanessa Heggie
Un testo sulla fisiologia estrema che raccoglie tematiche e punti di vista poco noti, mentre racconta la storia di esploratori (ed esploratrici) dimenticati
In alto e al gelo, storie di fisiologia estrema e di esplorazioni (Codice Edizioni, 29€) è un testo scorrevole e accessibile anche ai non addetti ai lavori che trasporta il lettore dal caldo torrido di questi giorni alle cime innevate delle montagne più alte del mondo e ai poli della terra per raccontare storie dimenticate di fisiologia estrema. L’autrice è Vanessa Heggie, ricercatrice britannica di storia della scienza e della medicina, già autrice di A History of British Sports Medicine (2011) e curatrice dal 2012 al 2017 di una rubrica di storia della scienza sul Guardian dal titolo The H world.
Un racconto scientifico e antropologico della fisiologia estrema
Nel testo, diviso in sei capitoli, grande spazio è dedicato allo studio di come reagisce il corpo umano a temperature e climi estremi. Se oggi siamo dotati di tecnologie avanzate per la sopravvivenza in ambienti inospitali, come abbigliamento adeguato, cibi ad alto contenuto calorico e ossigeno, la storia della fisiologia estrema che ha portato alla creazione per tentativi di queste attrezzature, è costellata di fallimenti.
Ciò che appare chiaro da subito nel testo di Heggie, è che lo studio di come il corpo umano reagisca agli ambienti estremi, soprattutto quelli ad alta quota e freddi, è andato avanti per oltre un secolo a tentativi più o meno maldestri e più o meno letali, per scoprire come poter svolgere le esplorazioni senza morire. La storia raccontata in questo libro è infatti costellata di morti di scienziati, esploratori e di molte guide locali, come gli sherpa (una popolazione delle montagne del Nepal).
La fisiologia estrema si è spesso servita di persone mai nominate, proprio come le popolazioni locali, che si sono sacrificate più o meno volontariamente per il progresso scientifico. Una parte fondamentale della ricerca di Heggie è proprio quella di dare voce a questi esseri umani periti negli anni senza mai essere riconosciuti. Per questo motivo il testo della ricercatrice non è solo un compendio scientifico ma anche filosofico e antropologico, che affronta temi complessi come quello dell’etica nella sperimentazione umana e la volontarietà delle popolazioni autoctone nel sottoporsi a questi esperimenti estremi.
Le popolazioni locali
I protagonisti degli studi di fisiologia estrema non sono solo esseri umani di sesso maschile, ma uomini bianchi. Per esempio, nel testo di Heggie viene dato molto spazio alla teoria dell’acclimatazione, una delle componenti fondamentali dello studio della fisiologia in alta quota. L’acclimatazione “vale a dire la ricerca biomedica che ha cercato di far sopravvivere organismi da climi temperati anche negli ambienti più estremi” è stata spesso associata al determinismo ambientale. Si credeva infatti che le popolazioni nate in alta quota fossero fisicamente predisposte, e che quindi avessero delle caratteristiche diverse al considerato perfetto “uomo bianco”.
Queste caratteristiche fisiche avrebbero quindi reso popolazioni come gli sherpa del Nepal, le popolazioni del Perù o gli Inuit dell’Artico intrinsecamente meno evolute, anche se adatt(at)e alla vita in condizioni estreme. Anche le tecnologie delle popolazioni locali hanno stentato a essere riconosciute: “le tecnologie di sopravvivenza indigene hanno in genere sperimentato uno di questi tre destini: essere abolite, essere reinventate, oppure essere “dimostrate giuste” dalla scienza occidentale”, afferma Heggie nel quarto capitolo, quello dedicato al sapere locale.
La questione delle donne
Heggie dedica molte pagine del suo libro alle donne. L’autrice ci tiene a sottolineare però di non aver scritto un capitolo a parte dedicato alle donne come spesso accade in letteratura: “La struttura di questo libro riflette […] la realtà della partecipazione delle donne a questo lavoro. Non c’è un capitolo intitolato “… e le donne” che raccolga la loro attività, perché in realtà permeano l’intero racconto, a testimonianza del fatto che, per quanto marginali, erano presenti ovunque.”
La storia della loro presenza è tangibile in tutto il libro, soprattutto per quanto riguarda le colpevoli “cancellazioni” dello spesso fondamentale contributo delle stesse in diverse occasioni. Le donne hanno anche dovuto lottare per la loro presenza nelle spedizioni, in quanto venivano sistematicamente escluse per diverse ragioni, come il ciclo mestruale. L’esclusione delle donne dalle spedizioni è durata fino a tempi molto recenti: “le donne britanniche non furono invitate nelle basi britanniche fino al 1983 e nessuna vi svernò fino al 1996”.
Non solo le donne erano tendenzialmente mal viste nell’ambiente, ma erano anche poco studiati i corpi femminili: “Anche dopo essersi guadagnate l’accesso alle spedizioni, raramente le donne erano state oggetto di studi fisiologici. […] Negli anni Ottanta i ricercatori estromettevano attivamente le donne dagli esperimenti poiché erano “di disturbo”, non solo per paura di tensioni sessuali o emotive, come avveniva nei siti sul campo, ma per la percezione che avessero fluttuazioni ormonali più marcate degli uomini, il che significava che non potevano essere usate come organismi stabili (omeostatici?) per la sperimentazione. Come molti altri storici hanno dimostrato, l’assunto che il corpo maschile fosse non soltanto stabile e affidabile, ma essenzialmente la forma “normale” per l’essere umano, è rimasto ostinatamente radicato nelle pratiche scientifiche moderne”. Tutto ciò quando, per la maggiore presenza di grasso corporeo e l’assenza di peluria sul viso, il corpo delle donne sarebbe in realtà intrinsecamente più adatto all’esplorazione di ambienti freddi.
Le questioni etiche
I racconti di Heggie, spesso molto appassionanti, delle diverse spedizioni ai poli o in alta quota, sono sempre accompagnati da una riflessione etica in merito alle conseguenze delle azioni compiute dagli esploratori. Abbiamo visto come siano stati affrontati il tema delle questioni di genere e quello dell’atteggiamento nei confronti delle popolazioni locali e delle loro tecnologie, ma l’analisi etica dell’autrice si spinge ancora più in là, arricchendo il lavoro di ricerca scientifica con un’analisi squisitamente filosofica dei temi trattati.
Per esempio: cosa fare degli studi compiuti durante la seconda guerra mondiale nei campi di concentramento? Utilizzare queste conoscenze è giusto? Sebbene l’autrice non voglia necessariamente rispondere a queste domande personalmente, espone le diverse teorie in merito ricordando così al lettore come le discipline scientifiche come la fisiologia siano strettamente legate alle scienze umane, facendo del testo un vero e proprio strumento di riflessione, oltre che di racconto di storia della scienza.
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