AMBIENTE

L’impatto ambientale di un maglione di cashmere

La globalizzazione può avere effetti indiretti e difficilmente prevedibili sulla natura. Perfino le mandrie di capre da lana, allevate sulle remote pendici dei monti Altai della Mongolia, possono avere un impatto pesante sulla fauna e sull’ambiente naturale

La diffusione dell’allevamento del bestiame rappresenta una minaccia per alcune specie chiave dell’ecosistema presente sulle montagne mongole. Lo conferma uno studio pubblicato sulla rivista Biological Conservation.

Inserire animali domestici da allevamento in un contesto di natura selvaggia può trasformarli in un fattore di attrazione o repulsione per i carnivori presenti nell’area, quali il leopardo delle nevi e il lupo. E possono anche alterare gli equilibri che tali specie hanno con le principali prede naturali, come lo stambecco siberiano

E infatti le mandrie di capre, sempre più diffuse anche nelle aree protette, sono attaccate dal lupo. Mentre invece allontanano e isolano il leopardo delle nevi in zone sempre più remote. Anche perché quest’ultimo predatore sembra essere più attratto dalla caccia notturna e da prede selvatiche.

Sebbene occorrano più dati per dimostrare la sua sovrapposizione con le zone occupate dallo stambecco siberiano, di certo anche la presenza di questi ungulati è relegata a zone diverse. È una conseguenza della concorrenza alimentare con le capre e le pecore da lana.

Come nasce un progetto di ricerca in Mongolia

Il progetto di ricerca sulle mandrie di bestiame della Mongolia è iniziato nel 2015 e si è concluso nel 2019. Ha coinvolto diversi istituti di ricerca coordinati dall’Università di Firenze: il MUSE – Museo delle Scienze di Trento, il CNR, l’Università di Lubiana e l’Università di Losanna.

“All’inizio mi contattò un collega biologo che fa base in Mongolia. Voleva studiare il leopardo delle nevi” racconta Francesco Rovero, ricercatore del Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze. “La richiesta nasceva soprattutto dalla mia conoscenza della tecnica utile a studiare specie che vivono in ambienti così remoti”. Il ricercatore fiorentino, infatti, lavora soprattutto in Italia, Tanzania e Africa Orientale con la tecnica delle foto-trappole.

E poi bisognava impostare lo studio ponendosi le domande giuste. “Il leopardo delle nevi era già un oggetto di studio interessante di per sé. Abbiamo poche conoscenze su questa specie perché vive e si nasconde in un’area vasta e frammentata. Ma volevamo anche colpire nel segno un problema importante, ossia l’impatto antropico sugli ecosistemi. E in quelle aree è rappresentato dall’allevamento”.

“Alla fine accettai, attratto dall’idea di portare avanti un progetto di ricerca su quelle montagne e su una specie particolare come il leopardo delle nevi”.

Il segreto nella tecnica

Per seguire le interazioni tra bestiame e animali selvatici i ricercatori hanno posizionato circa 200 foto-trappole in quattro aree montane della Mongolia occidentale, che spesso superano i 4000 m di altitudine.

Le foto-trappole sono macchine che si sono diffuse negli ultimi 15 anni per il monitoraggio dei mammiferi anche nelle aree più remote e selvagge. Possono sostituire una tecnica più tradizionale di monitoraggio degli animali, che ne prevede la cattura e il posizionamento di un collare satellitare.

“Le foto-trappole offrono il vantaggio di lavorare in autonomia per molti mesi, raccogliendo in contemporanea tantissimi dati. Alcuni di questi non si possono ottenere con i collari satellitari, anche perché permettono di seguire pochi individui. Inoltre, danno solo limitate informazioni sulle interazioni tra la specie seguita e il bestiame al pascolo. Infine, sono costosi, difficili da applicare, invasivi e incapaci di raccogliere dati sulle altre specie”, spiega Rovero.

Le foto-trappole, invece, collezionano informazioni su qualsiasi cosa attraversi il loro campo visivo. Quindi sono particolarmente utili per analizzare eventuali interferenze tra specie.

L’educazione delle comunità locali per un cashmere più sostenibile

In Mongolia, i pascoli occupano più di un terzo del territorio. Il paese è il secondo esportatore di cashmere dopo la Cina. L’Ufficio nazionale di statistica della Mongolia ha stimato la presenza di 71 milioni di capi di bestiame nel 2019, di cui 29 milioni erano capre. Il numero di capre nella regione è più che triplicato negli ultimi 30 anni. E il governo locale punta a sostenere la pastorizia, tanto che i pastori insediati nelle aree studiate sono propensi ad aumentare le dimensioni delle loro mandrie.

Lo studio pubblicato da Rovero e colleghi non ha solo una rilevanza scientifica. È molto importante anche per cambiare le abitudini delle comunità locali, in modo da rendere le loro fonti di reddito più sostenibili.

“La collaborazione con le agenzie locali è fondamentale per avere una ricaduta sulle comunità di allevatori”. E infatti hanno partecipato alla ricerca alcuni enti in Mongolia tra cui la ONG Wildlife Initiative, che ha coordinato la logistica in loco, e le autorità nazionali competenti.

“In qualità di ricercatori, possiamo fare molto nella formazione del personale locale che si occupa del mantenimento di parchi e zone protette, affinché possano rendere più efficienti i loro interventi e attività”.

Quest’ultimo punto è importante dato che le foto-trappole hanno rilevato la presenza di bestiame domestico non solo nelle aree protette in cui questa incursione è consentita. “Di fatto le greggi erano presenti in più della metà delle aree monitorate. La gestione del bestiame deve essere ripensata in una chiave più sostenibile”.

Con ciò si intende la limitazione delle aree in cui il bestiame ha accesso e la salvaguardia delle zone con protezione integrale. Si tratta anche di introdurre recinzioni più efficaci per prevenire conflitti tra uomo e lupo, in modo da porre una fine al bracconaggio di rivalsa.

La sostenibilità del cashmere parte dai paesi occidentali

Ma l’educazione sulla filiera del cashmere non può limitarsi ai paesi in cui vi è la produzione della materia prima. La trasformazione del manto soffice e fine delle capre che vivono in alta quota in filato riguarda da vicino l’Italia. Il nostro Paese è primo trasformatore mondiale del manto delle capre in filati. Sono attivi soprattutto i distretti di Biella e Prato.

Per limitare la richiesta di maggiore produzione del pregiato filato si può ricorrere all’economia circolare, cioè al recupero di filati di cashmere da abiti dismessi per dare vita a nuovi capi.
“Il filato rigenerato ha dei limiti” racconta Niccolò Cipriani fondatore di Rifò, un’azienda di Prato che realizza capi da cashmere rigenerato.
“Possiamo utilizzarlo per molte creazioni ma non proprio per tutto a causa delle sue fibre più corte. Abbiamo impiegato tempo per capirne i limiti e per sfruttare le fibre al meglio possibile”.

Il progetto di Rifò si inserisce nel solco di una tradizione. “Il mercato italiano del riciclo tessile ha una storia più che centenaria in distretti tessili come il nostro, a Prato”. Malgrado ciò, non sono mancate però mancate le difficoltà nel momento in cui è stata fondata la nuova attività. “Abbiamo dovuto creare dei processi di trasparenza e tracciabilità per stabilire la provenienza della materia prima seconda. E poi abbiamo dovuto creare dei collegamenti diretti con il nostro servizio di raccolta”.

E ci sono ancora aspetti che potrebbero essere perfezionati nel nostro Paese per rafforzare questo tipo di economia. “Occorrerebbe che gli scarti tessili venissero considerati come una materia prima e non più come rifiuti, in modo da dare loro un valore economico riconosciuto”.


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Foto anteprima: Victoria Bilsborough on Unsplash

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Giulia Annovi
Mi occupo di scienza e innovazione, con un occhio speciale ai dati, al mondo della ricerca e all'uso dei social media in ambito accademico e sanitario. Sono interessata alla salute, all'ambiente e, nel mondo microscopico, alle proteine.