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È violento, ma è solo un gioco

Non ci sono prove che gli episodi di violenza aumentino dopo il rilascio sul mercato di videogiochi come gli sparatutto, ma i pregiudizi sul loro ruolo rimangono.

Virtualmente, non c’è episodio di sparatoria di massa o violenze paragonabili cui non seguano, spesso senza far passare molto tempo, speculazioni di ogni genere su cosa abbia spinto gli autori a perpetrare simili azioni. Tra le ipotesi onnipresenti, che non sembrano mai passare di moda nonostante manchino solide evidenze scientifiche, c’è la presunta responsabilità dei videogiochi “violenti”, come gli sparatutto: se si trascorre il proprio tempo giocando a questi titoli è più probabile, secondo queste teorie, che si finisca per mettere in atto comportamenti violenti anche nella vita reale.

E se a portare avanti queste opinioni sono personalità in vista, come professionisti della salute mentale che parlano in tv o pubblicano articoli molto visibili – senza in genere aver mai giocato in prima persona a un videogioco – demonizzando questo strumento, non serve molto prima che il timore raggiunga le famiglie, portando i genitori a vietare i videogiochi in modo arbitrario. O arrivi ben più in alto, provocando situazioni estreme e surreali come quella cinese, dove è il governo a stabilire quante ore i ragazzi possono trascorrere giocando.

Le evidenze

Eppure di ricerca scientifica, ormai, un po’ ne abbiamo a disposizione, e su molti media si è parlato diffusamente e con rigore dell’argomento. La ricerca ha anche il merito di aver messo in luce altri elementi chiave nei gravi episodi di violenza, ma che fanno meno notizia e sono più complessi da affrontare rispetto al facile puntare il dito contro la tecnologia. Ad esempio la mancanza di investimenti e risorse nella tutela della salute mentale, anche in un’età critica come l’adolescenza, così come il troppo immediato accesso alle armi da fuoco che – in alcuni Paesi – rende fin troppo facile fare una strage.

Il più recente degli studi che ha indagato il rapporto tra videogiochi e violenza è stato condotto dalla University of London, dove Agne Suziedelyte, Senior Lecturer nel dipartimento di Economia, ha indagato gli effetti dei videogiochi violenti e il loro ruolo applicato a due specifiche modalità di violenza: l’aggressione ai danni di altre persone e la distruzione di oggetti/danni a proprietà. L’età dei ragazzi inclusi nello studio, pubblicato sul Journal of Economic Behavior & Organization, andava dagli 8 ai 18 anni.

L’autrice ha cercato un nesso di causalità tra i videogiochi violenti e i comportamenti violenti, basandosi in particolare sui periodi successivi all’uscita di nuovi titoli sparatutto di serie note come Call of Duty o Battlefield. La sua ricerca ha confermato che non vi sono evidenze che la violenza contro altre persone aumenti dopo il rilascio sul mercato di un nuovo videogioco di questo genere. Al contempo, basandosi su quanto riportano i genitori, riporta che i bambini erano più proni a comportamenti distruttivi (rompere oggetti) dopo aver giocato.

I risultati “suggeriscono che i videgiochi violenti potrebbero rendere i bambini agitati, ma questa violenza non si traduce in violenza contro altre persone – che è il tipo di violenza che ci interessa maggiormente”, dice Suziedelyte. “Una spiegazione probabile per i miei risultati è che il gioco in genere si svolge a casa, dove ci sono meno opportunità di cimentarsi in comportamenti violenti. Questo effetto di ‘incapacitazione’ è importante in particolar modo per i maschi con tendenze violente, che potrebbero essere più attirati dai videogiochi violenti. Per questo motivo”, conclude l’autrice, “le policy che impongono restrizioni sulla vendita di videogiochi ai minorenni difficilmente saranno efficaci nel ridurre la violenza”.


Leggi anche: “Vivere mille vite. Storia familiare dei videogiochi” di Lorenzo Fantoni

Photo by Ralston Smith on Unsplash

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".