INTERVISTE - Raccontare e condividere con gli altri due esperienze in parallelo, legate dagli stessi sentimenti. L’esperienza della malattia mentale di una madre, con i suoi alti e bassi, e di una figlia, che cresce e vive le sue esperienze in solitudine, mantenendo un legame forte con la madre e vivendo la sua malattia.
Barbara Grubissa ha presentato così il suo primo libro di poesie, “Son stufadiza”, giovedì 12 maggio a Trieste, città dove vive e in cui ha trascorso tutta la sua infanzia e l’adolescenza. Barbara ha raccontato una parte intima e dolorosa della sua vita attraverso una delle forme di comunicazione ed espressione più sottili e intrise di emozioni: la poesia.
«La poesia è un mezzo di comunicazione personale che fa emergere l’emozione e la passione: come una fotografia di una determinata azione senza però entrare nei dettagli del contenuto. È un’opera in cui contenuto e linguaggio si fondono per ritagliare l’osservazione del mondo solamente a livello emotivo, e non a quello razionale. Nella poesia tutti si devono riconoscere in qualche modo, come un oggetto visto da tantissime prospettive».
I versi poetici presenti nelle pagine del libro portano i differenti lettori a vivere un continuo intreccio di sensazioni e riflessioni attraverso i temi affrontati: il ricordo della madre malata, un’infanzia e un’adolescenza difficili, l’incomprensione dei medici, il suicidio. “Psicosi bipolare”: è questa la diagnosi della malattia, che costringeva la madre a vivere in equilibrio su un’altalena, la cui oscillazione veniva temporaneamente e con forza arrestata dal TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) e dall’abuso di psicofarmaci.
NOTIZIE - L’impegno per ridurre lo stigma verso che soffre di disturbi mentali non finisce mai. A volte a rendere le cose piùù difficili ci si mette pure la scienza ufficiale. Un esempio è uno studio di qualche anno fa che sosteneva l’esistenza di un legame fra il disturbo bipolare (noto anche come sindrome maniaco-depressiva) e la tendenza a commettere atti violenti. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Karolinska e dell’Università di Oxford oggi però esortano a una maggiore cautela nel divulgare dati come questi: secondo quanto osservato in un loro recente studio infatti non è il disturbo in se a rendere più probabili i comportamenti violenti, ma altri fattori che possono trovarsi associati alla malattia, fattori spesso determinati dalla scarsa qualità di vita e dalla discriminazione sociale a cui sono soggette le persone affette da malattia mentale.