CRONACACULTURA

La malattia mentale in versi

A Trieste, un libro di poesie che racconta il dolore di chi ha vissuto la malattia mentale. Intervista all’autrice, Barbara Grubissa

INTERVISTE – Raccontare e condividere con gli altri due esperienze in parallelo, legate dagli stessi sentimenti. L’esperienza della malattia mentale di una madre, con i suoi alti e bassi, e di una figlia, che cresce e vive le sue esperienze in solitudine, mantenendo un legame forte con la madre e vivendo la sua malattia.

Barbara Grubissa ha presentato così il suo primo libro di poesie, “Son stufadiza”, giovedì 12 maggio a Trieste, città dove vive e in cui ha trascorso tutta la sua infanzia e l’adolescenza. Barbara ha raccontato una parte intima e dolorosa della sua vita attraverso una delle forme di comunicazione ed espressione più sottili e intrise di emozioni: la poesia.

«La poesia è un mezzo di comunicazione personale che fa emergere l’emozione e la passione: come una fotografia di una determinata azione senza però entrare nei dettagli del contenuto. È un’opera in cui contenuto e linguaggio si fondono per ritagliare l’osservazione del mondo solamente a livello emotivo, e non a quello razionale. Nella poesia tutti si devono riconoscere in qualche modo, come un oggetto visto da tantissime prospettive».
I versi poetici presenti nelle pagine del libro portano i differenti lettori a vivere un continuo intreccio di sensazioni e riflessioni attraverso i temi affrontati: il ricordo della madre malata, un’infanzia e un’adolescenza difficili, l’incomprensione dei medici, il suicidio. “Psicosi bipolare”: è questa la diagnosi della malattia, che costringeva la madre a vivere in equilibrio su un’altalena, la cui oscillazione veniva temporaneamente e con forza arrestata dal TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) e dall’abuso di psicofarmaci.

“TSO come il cemento che frema TSO come diserbante di vite estreme
TSO che non chiede ragioni TSO che sigilla portoni”.

Le poesie di Barbara, attraverso lo stato mentale della madre e il dialogo con la figlia, oscillano continuamente tra due linguaggi e voci differenti. Da un lato il dialetto triestino, rappresentazione dei momenti di lucidità e la quotidianità della madre, e dall’altro l’italiano, che emergeva nei momenti in cui la madre non riusciva a tenere a bada il proprio equilibrio mentale. «Grazie alla mia poesia il lettore ha la possibilità di percepire gli stessi sentimenti e riconoscersi in situazioni che si provano nel momento del delirio, riportando semplicemente su pagina quello che io ho sentito da adolescente, vista da una prospettiva e vista dall’altra».

Secondo lo psichiatra e psicoanalista Thomas Szasz il termine “malattia” è soltanto una metafora e una mistificazione, per descrivere una sofferenza umana determinata da conflitti morali. E così che Barbara immagina un contesto metaforico che riesce ad offrire diverse interpretazioni personali. «Quando ho pensato a mia madre, ho pensato a una sirena. A livello metaforico la sirena canta in mezzo al mare, attira le persone, tutti la vanno a vedere ma in qualche modo è sempre da sola. In quel momento volevo rappresentare il senso di solitudine che ha la follia perché in quei momenti spesso le persone ti abbandonano. La sirena appoggiata sullo scoglio del mare è fortemente rappresentativa grazie al suo modo di cantare, perché da una parte ci allontana – infatti si continua a dire che il malato mentale è pericoloso – mentre dall’altra ci affascina, creando una confusione tra il razionale e la follia, parlandone tante volte come se fosse qualcosa di bello. La sirena mi faceva vivere quindi un’immagine duplice: una delimitazione tra equilibrio e follia, ossia qualcosa che non sta nel nostro mondo, che va aldilà dell’ordinario senso positivo, e per questo viene giudicata».

…“Se io fossi una sirena come mi chiameresti?”
Mi hai chiesto per sdrammatizzare?
“Come vuoi che ti chiami?
Diciamo Farina che è la base per tutti i cibi
ma che da sola non è commestibile”.
…”Se fossi Farina mi metterei su uno scoglio gridare aiuto”
hai detto appassito come un fiorellino
“E chi arriverà a darti una mano, mamma?”
“Di sicuro piccola un panciuto pescecane.”

È possibile capire in fondo la follia? «Secondo me la follia è una condizione umana», continua Barbara. «Franco Basaglia diceva che in noi la follia esiste come esiste la ragione, solo che ci sono semplicemente dei momenti in cui la sentiamo fortemente come una condizione interiore. Necessariamente, per mio vissuto, penso che la follia sia qualcosa di terribile perché ti porta in un confine che non riesci a controllare. E quando questo succede, cominci a non vedere più un futuro, un obiettivo e in qualche modo vai fuori rotta. Secondo me rappresenta soprattutto una forma di dimensione interiore che tutti possono attraversare nella propria vita. Io da triestina ho vissuto la storia da Basaglia in poi. Ho cominciato ad avere esperienza nei centri di salute mentale da quando avevo tre anni, nel 1979. Ho visto quindi tutti i cambiamenti e li ho sentiti su mia madre. Quello che sicuramente è cambiato è l’approccio alla persona, che è fondamentale. Dipende poi in che modo si riesce ad andare dentro la storia personale e cercare di capire anche le ragioni che l’hanno portata a questo. Per fortuna sono cambiate anche le condizioni del manicomio. Prima le condizioni in cui venivano tenuti i malati erano terribili, e ora il manicomio non c’è più».

“Non so se Basaglia ha mai capito
che una sirena sia dove sia
per sua natura
si sente in gabbia.
Tutti quanti, siano essi preti o pescatori
o quella donna dalle natiche rosa
che in strada vende il proprio seno
senz’altro tutti quanti seduti su uno scoglio in mezzo al mare
grideremmo come folli.”

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Nataša Stuper
Hello. I'm Natasa Stuper, a Science Communicator and Digital Journalist from Croatia living in England.