CRONACA

Lunga vita alla scimmia nuda

Gli esseri umani vivono più a lungo delle altre scimmie. Una ricerca genetica svela quali mutamenti del codice genetico hanno permesso questo adattamento

NOTIZIE – Tutto sommato il nostro corredo genetico non differisce molto da quello di scimpanzé e altri primati, eppure i nostri cugini hanno un’aspettativa di vita che raramente supera i 50 anni. Secondo gli studi di Caleb Finch, professore della scuola di gerontologia dell’USC Di Davies, questa differenza sarebbe dovuta a un adattamento sia nei nostri geni che nelle nostre abitudini alimentari.

È infatti una lunga catena di adattamenti quella che ha portato l’uomo ad avere una vita più lunga: in primo luogo la posizione eretta e la crescita del volume cerebrale hanno richiesto ai nostri antenati di adottare una dieta più energetica di quella basata solamente su vegetali. Le scimmie da cui discendiamo hanno dunque iniziato a mangiare carne, a differenza dei cugini primati che hanno invece mantenuto principalmente abitudini frugivore. La carne però ha i suoi svantaggi: il colesterolo che contiene causa infiammazioni croniche, aggravate anche dal fatto di mangiarla cruda e contaminata da microrganismi (come doveva essere prima del utilizzo del fuoco). Le infiammazioni croniche sono generalmente i precursori di tutta una serie di malattie legate all’età.

Il cambiamento di abitudini alimentari ha dunque richiesto un adattamento dell’organismo. Come scrive Finch gli esseri umani hanno evoluto particolari varianti di una proteina per il trasporto del colesterolo, l’apoliproeina-E, uniche della nostra specie. Questa proteina serve anche a regolare le infiammazioni e molti aspetti dell’invecchiamento delle arterie e del cervello. Una delle varianti solo umane è chiamata APOE3. Finch definisce il gene che la esprime “adattivo per la carne”, e sarebbe proprio il responsabile della crescita della nostra aspettativa di vita.

Come in tanti casi c’è un prezzo da pagare: nel corredo genetico dell’essere umano è infatti presente un’altra variante chiamata APOE4 che può avere effetti dannosi sullo sviluppo neuronale, accorciare l’aspettativa di vita (di quasi quattro anni) e innalzare il rischio di malattie cardiache e di Alzheimer, tutte malattie rarissime per esempio negli scimpanzé le cui varianti dell’APOE sono più simili alla APOE3 (ma non sono adattate alla dieta carnivora).

Perché questa variante “cattiva” dell’APOE è sopravvissuta nel nostro DNA a discapito della sua nocività? Finch, nell’articolo pubblicato su PNAS, ipotizza che il gene in questione porti con sé vantaggi durante la prima parte della vita degli individui (probabilmente fino al compimento dell’età riproduttiva) per poi evidenziare effetti nocivi solo in età avanzata.

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.