Mangiare carne e latticini in eccesso non fa bene alla salute e neppure all’ambiente, visto che gli allevamenti intensivi sono responsabili dell’emissione di notevoli quantità di gas serra e della distruzione di habitat. Però l’invito a ridurre i consumi non può valere per tutti allo stesso modo.
AMBIENTE – A Copenhagen, i “poveri” stanno dicendo “basta”. Ieri, i delegati africani hanno abbandonato le trattative, bloccandole per diverse ore. I popoli indigeni di foreste tropicali o dei ghiacci del Nord si organizzano per chiedere maggior considerazione per la loro precaria posizione di abitanti di zone che sono tra le più a rischio di distruzione a seguito dei cambiamenti climatici. Stesso atteggiamento da parte di piccoli paesi insulari, che temono di finire sommersi dall’innalzamento degli oceani . Il senso del messaggio è chiaro: ci sono intere nazioni e popolazioni che i paesi ricchi o in costante ascesa economica (come la Cina) non possono più ignorare, alle quali non possono più chiedere nuovi pesanti sacrifici sull’altare della protezione ambientale, mentre a loro volta non intendono cedere rispetto alle strategie attuali.
E oltre che da Copenhagen, appelli dello stesso tenore si moltiplicano anche in altre sedi, su temi correlati. Per esempio la questione degli allevamenti, affrontata in un recente articolo pubblicato dalla rivista Current Opinion in Environmental Sustainability. La riduzione dei prodotti di origine animale è infatti uno dei “comandamenti” classici proposti da molti ambientalisti per cercare di ridurre le emissioni di gas serra e la distruzione di habitat, oltre che per migliorare la qualità della dieta.
“Attenzione però: quello che vale per i paesi sviluppati non deve valere per forza anche per quelli in via di sviluppo”, dicono gli autori dell’articolo, afferenti all’International Livestock Research Institute (Ilri) con sede a Nairobi. “Le popolazioni dei paesi più poveri hanno bisogno di carne e latticini per integrare una dieta spesso qualitativamente molto scarsa”. Del resto, i consumi di cui stiamo parlando sono ben lontani da quelli dei paesi sviluppati. Un esempio? Si prevede che, entro il 2050, il consumo annuale di latte nei paesi in via di sviluppo aumenterà da 44 a 78 kg a persona. Un bell’incremento, certo, ma siamo ancora ben al di sotto dei 202 kg per persona consumati ogni anno nei paesi ricchi.
In Africa o in Asia, inoltre, gli allevamenti rappresentano spesso una preziosissima opportunità lavorativa: in Kenya, ogni 100 litri di latte prodotti in più al giorno si creano due nuovi posti di lavoro. Anche in questo caso, insomma, il messaggio è chiaro: dopo essersi letteralmente ingozzati per anni di carne, formaggi, burro e latte, i ricchi non possono chiedere ai poveri di rinunciare alla giusta pretesa di una crescita dei consumi di prodotti buoni per la salute e per l’economia.
Detto questo, gli autori dell’articolo non si tirano indietro dal riconoscere eventuali responsabilità e dal proporre nuove vie per affrontare il problema. “Il rischio che un rapido aumento nel consumo di carne e latticini nei paesi in via di sviluppo possa danneggiare l’ambiente, senza tuttavia eliminare in modo definitivo il problema della malnutrizione, c’è”, afferma Mario Herrero, scienziato all’Ilri. “Occorre quindi lavorare con strategie mirate: per esempio, bisogna trovare il modo di ridurre le emissioni di metano da parte degli animali in allevamento, magari con il ricorso a diete particolari oppure lavorando per modificare la flora batterica intestinale degli animali. E bisogna concentrarsi su varietà ad alta resa”.
O, ancora, occorre ottimizzare la gestione dei liquami e mettere a punto nuove strategie in grado di sequestrare gas serra. Importanti sfide scientifiche, per le quali è necessario prevedere anche importanti investimenti economici.