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Processo ai biocarburanti

I combustibili ecologici non sono la panacea. Possono ridurre la dipendenza dal petrolio, ma per produrli si consuma troppa energia e si sottraggono risorse all’alimentazione. La soluzione? Puntare alla seconda generazione

ECONOMIA – L’entusiasmo verso i biocarburanti è scemato. Mettere olio di colza nei motori, alla prova dei fatti, non si è rivelata un’alternativa alla benzina così vantaggiosa dal punto ambientale ed energetico. Erano tante, e ambiziose, le promesse dei combustibili verdi,termine con cui si intendono quelle materie derivate dalla spremitura dei semi o dalla lavorazione chimica (nel caso del biodiesel e dell’etanolo) di coltivazioni agricole tradizionali (quali colza, mais, soia, barbabietola, canna da zucchero ecc).

I più ottimisti li hanno salutati come la panacea ai mali del pianeta. Hanno creduto che i biocarburanti potessero ridurre la dipendenza assoluta del settore dei trasporti dal petrolio (che alimenta il 98% dei mezzi in circolazione), limitando le pesanti emissioni di gas serra nell’atmosfera. Che fossero una risorsa energetica ecologica in grado di compensare il progressivo esaurimento delle risorse fossili, di offrire una soluzione al caro-benzina, diversificare e dislocare gli approvvigionamenti, e persino di allentare le tensioni geopolitiche nei paesi arabi più ricchi di giacimenti di idrocarburi.

Poi l’ottimismo si è incrinato. Un’analisi più accurata dei processi di produzione ha colpito al cuore l’assioma “ecologista” dei biocarburanti: ovvero che le emissioni di anidride carbonica prodotte nella combustione compensino l’anidride carbonica assorbita dalle piante, con un bilancio finale favorevole. “Ma se mettiamo in conto la spesa energetica per coltivare, concimare, mietere, trasportare e trasformare il raccolto in biocarburante, e se si considera soprattutto che gran parte di questa energia è sprecata perché solo una piccola parte della pianta, i semi, viene utilizzata per produrre il combustibile, mentre il resto è gettato via, allora il risultato non è così positivo come stimato in principio, a meno di non riutilizzare i residui”, afferma Vito Pignatelli, responsabile Enea (l’Ente nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) del Gruppo sistemi vegetali per prodotti industriali e nuovo presidente dell’Itabia (Italian biomass association).

Nella partita con i combustibili fossili, non ha giocato a favore dei biocombustibili il fatto che i costi per loro produzione siano ancora troppo elevati. Il guaio più grande è però un altro: la produzione di biocarburanti su ampia scala implica il rischio di una drammatica sottrazione di terreni agricoli destinati all’alimentazione e di un impoverimento delle colture, con danni alla biodiversità. Nel 2007 è stato suggerito un legame tra l’aumento nella produzione di biocarburanti e l’impennata dei prezzi dei cereali, ipotesi smentita l’anno successivo, quando i prezzi delle derrate sono scesi nonostante l’incremento dei biocarburanti. Tuttavia, il conflitto tra le coltivazioni agricole per l’energia e quelle per l’alimentazione rimane insoluto. Al momento, si tratta ancora di un falso problema perché il peso dei biocarburanti è limitato. “Attualmente solo 20 milioni di ettari, pari all’1% della superficie arabile coltivata è impegnata da colture per i biocarburanti”, specifica Pignatelli, ma è fondata la preoccupazione che in futuro la riconversione dei campi a scopi energetici abbia un impatto serio sulle riserve di cibo a livello locale.

Se la produzione di biodiesel ed etanolo aumenterà, come chiedono Unione europea e Stati Uniti, il prezzo da pagare per sostituire almeno una quota di petrolio con i combustibili rinnovabili potrebbe diventare insostenibile. “Cosa succederà quando l’Europa raggiungerà il 10% dei consumi energetici nel settore dei trasporti da fonti rinnovabili, come obbliga a fare entro il 2020 la direttiva 2009/28/CE? Cosa succederà quando l’America raggiungerà il 15% entro il 2025? E cosa succederà se si andrà ancora oltre e nel 2050 si arriverà a coprire con i biocarburanti il 30-35% dei consumi per i trasporti?”, si chiede Pignatelli. “È chiaro – risponde – che a quel punto la competizione tra alimentazione ed energia si porrà. Ed è chiaro che l’unica possibilità che abbiamo è sviluppare nuovi tipi di biocarburanti”.

Denominatore comune della cosiddetta seconda generazione di biofuels è “l’utilizzo di materie prime di scarto o non utilizzabili a fini alimentari, oppure di colture dedicate che possono crescere in aree marginali, con una valenza anche di difesa e copertura del suolo. Uno degli ultimi progetti dell’Enea  – prosegue Pignatelli – riguarda l’impianto di coltivazioni in discarica, terreni sicuramente non in competizione con i campi agricoli ma che consentono di avere materia prima zuccherina fermentabile per la produzione di biogas”.

Attualmente l’opzione verde più promettente allo studio dei ricercatori è la coltivazione delle alghe: “Ovviamente nessuno pensa di ricoprire di alghe i litorali costieri. Le alghe vengono fatte crescere in vasche, per esempio nelle aree industriali dismesse, nelle cave abbandonate o in appositi stabilimenti”. Sono tra le piante che crescono più rapidamente e hanno una resa altissima. “La produttività delle alghe è oltre venti volte superiore a quella della migliore coltura oleaginosa, come soia, girasole, palma, a parità di superficie occupata”, aggiunge l’esperto. “Il problema è che allo stato attuale è difficile mantenere alti livelli di produttività nei bioreattori a costi contenuti”.

Altra possibilità all’orizzonte è la cellulosa, fibra legnosa da cui è possibile estrarre etanolo per fermentazione batterica. Mentre alghe e cellulosa sono ancora in fase di sperimentazione, è prossimo all’ingresso sul mercato il BTL o gasolio sintetico, che si ottiene con una tecnologia già nota per produrre gasolio dal carbone. “L’integrazione di sistemi e l’uso di nuove tecnologie apre l’unica via per risolvere il conflitto con le coltivazioni alimentari ed energetiche, e al tempo stesso limitare i danni dei carburanti fossili”, conclude il ricercatore dell’Enea.
Una cosa è certa: affrancare il mondo dal petrolio non è un’impresa facile. Il fatto è che è indispensabile.

I combustibili ecologici non sono la panacea. Possono ridurre la dipendenza dal petrolio, ma per produrli si consuma troppa energia e si sottraggono risorse all’alimentazione. “La risposta a questi punti critici – dice Vito Pignatelli dell’ENEA – è nei carburanti di seconda generazione. Il futuro è nelle alghe”.

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