Una controversa conferenza solleva interrogativi fondamentali: le tecniche di mitigazione dei cambiamenti climatici rappresentano la soluzione del problema o pongono piuttosto nuove difficoltà? E chi se ne deve occupare?
IL CORRIERE DELLA SERRA – Il problema lo conosciamo bene: la Terra si sta scaldando, molto probabilmente perché produciamo troppi gas serra. Soluzioni? La prima a venire in mente è la riduzione delle emissioni di questi gas, che è però a lungo termine e comunque difficile da mettere in pratica (vedi l’insuccesso della conferenza sul clima di Copenhagen). Altre proposte in teoria più immediate vengono dalla nuova disciplina della geoingegneria : progetti di sequestro del CO2 (in piante, suoli, oceani…) e di solar radiation management (gestione della radiazione solare). Se la Terra ha caldo, perché non ridurre la quantità di radiazione solare (e dunque di calore) in arrivo? Per esempio rispedendola al mittente tramite enormi specchi riflettenti da piazzare in atmosfera o attraverso la tecnica di “sbiancamento” delle nuvole (le si “semina” con sali marini in modo che brillino di più e riflettano meglio la luce).
L’idea di controllare il clima del pianeta manipolando le nuvole (o simili) affascina e sgomenta al tempo stesso. Sembrerebbe quindi una buona notizia il fatto che gli scienziati impegnati sul fronte abbiano deciso di incontrarsi per fissare una cornice regolatoria in cui collocare i propri esperimenti di ingegneria del clima. L’incontro si è svolto un paio di settimane fa ad Asilomar, spettacolare centro conferenze a due passi da Monterey, in California. Una location certo non casuale: sempre lì, nel 1975, un gruppo di biologi si riunì con uno scopo analogo rispetto alla nascente biologia molecolare, e terminò l’incontro con un manifesto con cui i ricercatori si autoimponevano alcune restrizioni sperimentali.
Come allora, anche oggi c’è preoccupazione per conseguenze impreviste di esperimenti di controllo del clima, anche perché c’è la concreta possibilità che possano avere ricadute in zone del pianeta molto lontane da quelle in cui sono condotti. Senza contare che, come scrive Jeff Tollenson su “Nature”, allo stato attuale delle conoscenze misurare cambiamenti nel clima dovuti all’applicazione di tecniche di geoingeneria è tutt’altro che banale: “Potrebbero volerci anni per valutare gli effetti principali e decenni per individuare anche gli impatti minori”. Ancora più a monte, c’è chi non vede di buon occhio la nuova disciplina perché teme possa fornire un potente alibi a governi che non vogliono porsi il problema del riscaldamento globale e delle riduzioni di gas serra.
Quindi bene cercare di fissare delle regole, il problema però è che a molti la conferenza di Asilomar non è sembrata affatto il posto giusto per farlo, anzitutto per una questione di mancata indipendenza. L’incontro, infatti, è stato organizzato dal Climate Response Fund, organizzazione diretta da Margaret Leinen, che è una rispettabilissima scienziata ma anche l’ex responsabile scientifica di Climos Inc., una società privata di soluzioni geoingegneristiche.
Particolarmente critica la posizione dell’organizzazione non governativa canadese Etc Group. In una lettera aperta rivolta agli organizzatori della conferenza e firmata da una settantina di altre organizzazioni internazionali, Etc Group ha denunciato quanto sia inopportuno che a dettare le regole per la sperimentazione siano gli sperimentatori stessi. Secondo i firmatari, “la priorità al momento non è individuare condizioni entro cui possano avvenire gli esperimenti, ma stabilire se la comunità civile internazionale ritenga la geoingegneria effettivamente accettabile dal punto di vista tecnico, legale, sociale, ambientale ed economico”. E ancora: “Gli organizzatori della conferenza – quasi esclusivamente scienziati maschi bianchi di paesi industrializzati – presumono di avere l’esperienza, le conoscenze e la legittimità per stabilire chi debba prendere parte a questa conversazione e chi invece debba rimanerne eslcuso”.
Il problema sollevato, e cioè la partecipazione pubblica a decisioni relative a questioni scientifico-tecnologiche che possono avere ampie ricadute sociali – non è certo di poco conto ed è sicuramente la prima grande sfida che la geoingegneria dovrà affrontare. Se ne stanno occupando anche la Royal Society di Londra, la Third World Academy of Sciences, con sede a Trieste, e l’Environmental Defense Fund, che hanno appena lanciato un programma di ricerca sulla governance della geoingegneria che dovrebbe portare, entro fine anno, a un set di raccomandazioni e best practices per l’eventuale svolgimento di ricerche e sperimentazioni.
La differenza rispetto a quanto fatto ad Asimolar è che non saranno coinvolti solo scienziati, ma anche organizzazioni governative e non governative, rappresentanti dell’industria, della società civile e di movimenti ambientalisti. E la speranza è che le indicazioni siano un po’ più stringenti di quelli proposte a conclusione del meeting californiano, che si limitano a sottolineare come la geoingegneria debba essere considerata un bene pubblico, da gestire con piena partecipazione pubblica.