NOTIZIE – Tanto per dimostrare che non ce l’ho di principio con tutte le medicine alternative, ma solo con quelle che volendosi vestire con un abito scientifico (con tutti i vantaggi annessi) non tentano nemmeno di dare prova scientifica delle loro efficacia, oggi voglio parlare di un campo promettente di studi: il trattamento del dolore attraverso l’agopuntura.
Nina Theysohn, dell’Università di Essen, in Germania, presenterà oggi al meeting della Radiological Society of North America, i risultati del suo ultimo studio: l’agopuntura cambia la percezione del dolore e questo cambiamento è osservabile a livello di attività cerebrale.
Niente di magico. Qui non si invoca una presunta memoria dell’acqua (che sarebbe sì, a detta dei sostenitori, un fatto tangibile della fisica, ma che non si può osservare con i metodi della scienza perché “funziona con meccanismi diversi “) o altri meccanismi pseudomagici. Qui si parla di meccanismi fisiologici al lavoro.
Da tempo è provato che esistono vie fisiologiche di soppressione del dolore. Un esempio noto è quello che le vie nervose tattili (quelle che portano la stimolazione tattile verso il cervello) hanno dei collegamenti di feedback sulle vie “gemelle” del dolore. In pratica la stimolazione tattile (una carezza per esempio, o il bacino di mamma sul ginocchio sbucciato) possono davvero portare sollievo alla stimolazione dolorosa bloccandola almeno in parte prima ancora che arrivi al cervello. Questo per dire che è assolutamente possibile che infilare degli aghi in punti specifici del nostro corpo possa aver un effetto sulla percezione del dolore. Se una carezza funziona, in via di principio perché non dovrebbe funzionare un ago? Certo per l’agopuntura il meccanismo deve essere un altro perché gli aghi vengono messi in vari punti del corpo, anche molto distanti dalla zona dolorante. Ma diciamo che ci si può ragionare su. E soprattutto si può indagare sperimentalmente.
Nel caso specifico Theysohn usando una risonanza magnetica funzionale ha notato che durante una prova sperimentale l’attività cerebrale nelle aree del dolore era significativamente ridotta in coloro che avevano avuto un concomitante trattamento di agopuntura, rispetto a chi non l’aveva avuto.
Il tallone d’Achille di questo tipo di ricerche è sempre l’effetto placebo. Quando abbiamo a che fare con un farmaco è facile far credere a una persona che sta assumendo un trattamento reale quando invece si tratta di una caramella, e dunque l’effetto può essere controllato sperimentalmente. Con gli aghi inevece è tutto più complicato (mica si può infilzare “per finta” un malcapitato soggetto).
Theysohn non ignora questo argomento. “L’ipotesi è che l’agopuntura agisca attraverso due meccanismi – effetti non specifici basati sulle aspettative di cura e effetti specifici di modulazione del dolore.” La componente placebo non è dunque esclusa. Infatti la scienziata ha trovato un effetto sull’attivazione di quelle aree cerebrali che da studi precedenti sarebbero note per regolare le aspettative sul dolore. In pratica questa sarebbe la prova di un effetto placebo al lavoro.
Oltre a questo tipo di attivazione però lo studio – durante le sessioni in cui non veniva applicata l’agopuntura – ha registrato anche un’attivazione significativa nella corteccia ipsilaterale (nella stessa metà del corpo della zona dolorante) supplementare motoria. Durante le sessioni con l’agopuntura invece quest’attivazione delle aree che processano il dolore era significativamente ridotta.
“I nostri risultati supportano entrambi questi effetti specifici e non specifici, suggerendo che l’agopuntura è efficace nel ridurre il dolore.”
Chiudo con una considerazione. Almeno nel caso dell’agopuntura il ragionamento è mantenuto nel campo della sensato e non vuole uscire dal metodo scientifico: un effetto placebo c’è e si ammette. Si ipotizzano però anche effetti fisiologici mediati da meccanismi non oscuri e pseudomagici ma governati dalle regole già note della fisiologia del sistema nervoso. Molto lavoro per provare questi meccanismi è stato fatto (qui e qui alcuni esempi), altro s’avrà ancora da fare