LIBRI – Una guida per i professionisti della salute, perché abbiano coscienza di ciò che i loro gesti determinano nella mente dei pazienti, e una lettura affascinante per tutti coloro che si interessano di neuroscienze, alla scoperta di ciò che accade nel cervello dei malati, dall’apparire dei primi sintomi fino alla terapia. È il viaggio che Fabrizio Benedetti, docente di fisiologia all’Università di Torino e ricercatore dell’Istituto nazionale di neuroscienze, compie in The patient’s brain, edito dalla Oxford University Press. «L’ipotesi centrale del libro è che il rapporto medico-paziente sia un sistema sociale basato su processi cerebrali, che funziona come un meccanismo di difesa e la cui evoluzione può essere seguita a partire dagli organismi più semplici fino all’uomo» spiega lo scienziato.
Due i percorsi attraverso cui si snodano i capitoli: il primo, di sapore darwiniano, arriva a dimostrare che i processi mentali che stanno alla base della ricerca di aiuto da parte dei malati non sono dissimili da quelli che spingono a soddisfare necessità primarie come il mangiare o il bere. Anche l’obiettivo, a ben guardare è il medesimo: sopravvivere. «Quando un paziente sta male, cerca sollievo nello stesso modo di quando ha fame o sete» scrive Benedetti. «Le differenze culturali giocano un ruolo cruciale nel repertorio di comportamenti che vengono messi in pratica. Ma la prima cosa che fa chi sta male è quella di affidarsi a un guaritore che egli ritiene capace di curarlo».
Il secondo percorso prende invece le mosse dalle ricerche di Benedetti sull’effetto placebo, e conferma quanto studi di sociologia e psicologia hanno già trovato in passato, e cioè che la qualità della relazione fra medico e paziente influisce sull’esito delle cure. «L’incontro con il terapeuta è già in sé parte della terapia» afferma lo scienziato, che però va a cercare nella neurofisiologia l’origine di questo ben documentato effetto. Si scopre così che ciò che accade nel cervello del malato non dipende dall’efficacia reale della terapia, così come questa viene valutata dalla evidence based medicine. «La differenza fra uno sciamano e un medico moderno è che mentre i riti sciamanici mancano di una specifica efficacia, almeno nella maggior parte dei casi, i medici di oggi si basano su procedure e farmaci che hanno precisi meccanismi di azione» chiarisce il neurofisiologo. «Tuttavia, il sistema socio-neurale è sempre lì sia con gli sciamani che con i dottori, come un sistema ancestrale pronto a venir fuori».
Nel libro si individuano quattro fasi del percorso che il malato compie attraverso la malattia, caratterizzate dall’attivazione di specifiche aree cerebrali, che Benedetti individua mettendo insieme i risultati di numerose discipline, dalla genetica, alla neurofisiologia, alla psicanalisi.
«La prima fase, il sentirsi male è una combinazione di meccanismi ascendenti verso il cervello e discendenti verso il corpo» scrive il ricercatore. È dunque, in buona sostanza, il risultato dei segnali che l’organo malato invia al sistema nervoso centrale, e della loro successiva elaborazione da parte del cervello. L’insula, ritenuta responsabile della percezione cosciente del sintomo, e il sistema limbico, fondamentale per avvertire emozioni come la rabbia, l’ansia o la depressione, sono in questa fase determinanti. «La seconda fase, la ricerca di sollievo è promossa invece dall’attivazione dei circuiti cerebrali della motivazione e della ricompensa» prosegue Benedetti. Aree chiave sono il nucleo accumbens e il sistema della dopamina che, più in generale, stanno alla base di un’ampia gamma di comportamenti mirati a soddisfare i bisogni. «La terza fase è l’incontro con il terapeuta, regolato dai meccanismi fisiologici e biochimici alla base di fiducia speranza» si legge nel libro. È questa una tappa molto complessa che coinvolge gli organi di senso e numerose aree cerebrali. Fra queste l’amigdala, la cui attività determina il senso di fiducia, e che è modulata a sua volta dall’ossitocina, l’ormone ipofisario che genera anche l’attaccamento fra la madre e il figlio. «L’ultima tappa, il ricevere la terapia coincide con l’attivazione dei meccanismi dell’aspettativa e dell’effetto placebo, che fanno capo in primis al lobo prefrontale dorsoparietale della corteccia, ma che coinvolgono anche altre strutture» dice Benedetti. Questi meccanismi sono influenzati dal personale sanitario che con il suo atteggiamento può scatenare fiducia e speranza, che alleviano il malessere, oppure, al contrario, ansia e preoccupazione, sensazioni negative che hanno l’effetto di amplificare il dolore.