FOTOGRAFIA – Giappone, Svezia, Finlandia. Sono le terre toccate dal fotografo Stefano Unterthiner per raccontare la sua personale storia per immagini del cigno selvatico: il superamento dell’inverno (che il cigno può trascorrere anche a temperature di diversi gradi sotto zero), le grandi migrazioni, la nidificazione e la cura dei piccoli. Mesi e mesi di preparazione, studiando con cura la specie, organizzando i dettagli logistici dei viaggi, intervistando ricercatori che si occupano dell’ecologia e del comportamento del cigno, e poi mesi di appostamenti e di scatti, raccolti prima in un servizio pubblicato dal “National Geographic” (il massimo, per un fotografo naturalista), e poi in un libro, Angeli dell’inverno (Ylaios, 2010). Mi è capitato di sfogliarlo e sono rimasta affascinata. Sono immagini poetiche e delicate, da cui traspare, secondo me, un enorme rispetto di Unterthiner per i soggetti e gli ambienti che fotografa .
Certo, di fronte a immagini così, quasi incantate, viene da chiedersi se possano avere anche un valore scientifico e, in generale che cosa possa dare oggi al sapere scientifico la fotografia naturalistica. Per Unterthiner ci sono due tipi di contributi. «Il primo è la documentazione di comportamenti poco noti o poco visti, da sottoporre a ricercatori specializzati». Nel caso del cigno non ci sono state scoperte eclatanti, però il fotografo ha immortalato alcuni adulti con i piccoli sulla schiena, un comportamento che non era mai stato osservato nella popolazione di cui si è occupato. «Il secondo è legato alla conservazione: veicolando conoscenza, le immagini non hanno solo un ruolo divulgativo, ma possono aiutare a sensibilizzare rispetto a determinati temi.Io, per esempio, ho potutto osservare da vicino una delle principali cause di mortalità odierne per i cigni: l’impatto con i fili elettrici».
A dire il vero, oggi il contributo alla conservazione è al centro di un dibattito piuttosto acceso nella comunità di fotografi naturalisti: alcuni si chiedono se l’overdose di immagini in cui siamo continuamente immersi non induca piuttosto a una desensibilizzazione. «E a volte io stesso mi chiedo se il mio lavoro possa servire davvero, possa portare a qualcosa di buono, per gli animali e gli ambienti che fotografo», racconta Unterthiner. «In fondo, però, non posso proprio fare a meno di continuare a credere che possa servire». Per fortuna, penso io.