CRONACA

La matematica? Può servire per l’integrazione (parte II)

(Pubblichiamo qui la seconda parte dell’intervista a Giovanni Nicosia, esperto di Etnomatematica)

OS: Cosa si aspetta una famiglia cinese dalla scuola e dalla matematica? È possibile un insegnamento generale comune per studenti di culture così diverse come quelle cinese, araba, indiana ed europea?

GN: In una così grande varietà di linguaggi e aspirazioni, è necessario ripensare anche a che cosa vuol dire “insegnamento”. Non possiamo più pensare di calare dall’alto dei contenuti e di metodi nella speranza che qualcuno li acquisisca senza mettervi qualche cosa di suo. La didattica, la matematica stessa, vanno ricostruite classe per classe come patrimonio di quel preciso gruppo di individui, mediando con le necessità poste da programmi ed esami. Anche questi fanno parte di una dinamica culturale che deve basarsi sempre più sullo scambio e sulla condivisione di contributi personali. Non si tratta solo di arricchire il curriculum con elementi matematici provenienti dai altri contesti culturali delle famiglie dei nostri studenti (cosa peraltro auspicabile perché dimostra rispetto nei loro confronti). È necessario stimolare le proposte e la discussione sule convinzioni matematiche che essi portano in classe dal loro ambiente. Algoritmi per le operazioni, metodi di misura, sistemi di inferenza,… ma per far questo è necessario che l’insegnante sappia ascoltare ed osservare i suoi studenti.

Per essere più concreto, racconto un episodio. In un istituto professionale ad altissima presenza di studenti di cultura non italiana di Bologna, io ed alcuni insegnanti notammo che gli studenti filippini di alcune classi prime facevano strani gesti con le dita durante i compiti in classe. Studiammo i loro gesti e poi chiedemmo spiegazioni, stando bene attenti a non intimidirli. Questi studenti, dopo qualche segno di stupore per le nostre domande, spiegarono che si trattava di una tecnica di calcolo con le dita comoda e rapida. Ce la illustrarono e la trovammo geniale. Allora decidemmo che questo sapere doveva diventare patrimonio di tutti. Reclutammo una piccola rappresentanza filippina tra un paio di classi e la mandammo a realizzare una presentazione col computer, promettendo di valutarne l’esito come interrogazione di matematica. Dopo che la presentazione fu mostrata alle classi e la tecnica di calcolo fu recepita a tutti gli studenti, saltarono fuori altre tecniche di calcolo e uno studente bengalese volle realizzare una presentazione su un sistema di conteggio e calcolo basato sulle pieghe tra le falangi delle mani. A lui affiancammo non solo studenti bengalesi, ma anche ragazzi delle più diverse origini. Poi la cosa divenne di moda e diversi gruppetti eterogenei si misero al lavoro. Ne risultarono attività molto coinvolgenti per i ragazzi che si sentirono valorizzati e stimolati. Le presentazioni più belle furono pubblicate sul sito della scuola, dove sono consultabili ancora oggi.

Possiamo dire che abbiamo nelle classe una situazione di multiculturalità e che dobbiamo passare per una fase di elaborazione interculturale per arrivare poi alla costruzione di una transcultura. Questo è il processo delineato da D’Ambrosio, il fondatore dell’etnomatematica. A questo processo siamo sostanzialmente condannati, ma se non lo gestiamo può dare esiti deludenti, che non valorizzano quella messe di contenuti e metodi matematici che ci si presenta.

 

OS: Il suo approccio ci consente di accennare alla disciplina recente e particolarmente stimolante dell’etnomatematica. Ci dice in poche parole di cosa si tratta?

 

GN: L’etnomatematica è nata da quel movimento di riflessione su che cosa si studia e si intende per matematica, sviluppato negli anni settanta in Brasile e negli Stati Uniti d’America (non a caso Paesi di immigrazione planetaria). Può essere definita come un programma di ricerca sulla matematica propria dei gruppi socioculturali. Il prefisso “etno-” è inteso nel senso largo di “gruppo umano che condivide esperienze o problemi” e comprende sia piccole società prive di scrittura e residenti in luoghi remoti, sia categorie professionali, comunità religiose o altre collettività particolari che fanno parte delle società avanzate. L’idea fondamentale è che i membri di un certo popolo, gli utenti di un servizio, i giocatori di un certo insieme di giochi di carte, gli ingegneri civili, gli spacciatori di una certa zona di una città… abbiano sviluppato nella loro storia personale e collettiva alcune competenze, idee, e rappresentazioni matematiche e dei loro metodi che hanno aspetti matematici salienti: questi gruppi hanno ciascuno la sua cultura matematica. L’etnomatematica si interessa dei loro metodi di calcolo, misura, stima, inferenza, decisione, sistemi di numerazione, conteggio, rappresentazioni artistiche, concezioni dello spazio e del tempo, tecniche di costruzione di edifici ed opere pubbliche, giochi e di tante altre attività mentali o pratiche che possono essere tradotte nelle forme della matematica accademica.

La matematica viene vista come una pratica legata ai bisogni materiali o simbolici e alle caratteristiche del gruppo sociale che la produce e la condivide. E, dato che le situazioni in cui si trovano i gruppi umani sono diverse, si hanno matematiche diverse con interessi e metodi particolari, che possono in parte essere tradotte col linguaggio unificante della matematica accademica. Si tratta naturalmente di studi di tipo interdisciplinare, che si basano su metodi di osservazione simili a quelli degli antropologi. Ma dato che gli antropologi di oggi studiano assolutamente con tutto (osservazioni dirette, statistiche, racconti, romanzi, canti, opere d’arte, opere scientifiche e tecniche…), anche per gli etnomatematici c’è grande libertà di scelta di metodi e mezzi.

OS: In India del sud si studia la geometria dei kolam, in Oceania i giochi che i bambini fanno intrecciando spaghi. E in Italia, cosa potrebbe studiare un etnomatematico?

GN: Come è già chiaro, il meraviglioso incontro di tradizioni matematiche e didattiche che avviene oggi nelle scuola italiane grazie all’immigrazione ed alla globalizzazione ci offre interessantissime occasioni per imparare e socializzare cose che non conosciamo: algoritmi, rappresentazioni, convinzioni…

Inoltre il nostro Paese ha forse la più ricca tradizione artistica del mondo, con sistemi di rappresentazione e processi ottici variegati. Anche in questo campo c’è ancora molto da scoprire.

Possiamo inoltre volgerci alle tantissime tradizioni artigianali che vanno scomparendo. Per esempio a me, avendone il tempo, piacerebbe esaminare i preziosi ricami e sfilati custoditi nei diversi musei della provincia di Ragusa o nelle cassapanche di alcune nonne. Credo che troverei nelle testimonianze di quell’antica arte femminile delle regolarità di motivi decorativi (nella letteratura specifica più note come patterns), dei metodi di misura e rappresentazione schematica, e insomma tanta matematica. Quella stessa che si può cercare nei kolam del Tamil Nadu o nei lusona angolani.

Analogamente, anche il mondo delle tecniche di produzione agricola tradizionale è un giacimento di conoscenze e pratiche matematiche. Altrettanto dicasi delle tradizioni religiose o simboliche, delle fiabe o degli usi sopravvissuti dall’era preindustriale. Delle ricette culinarie o di certi giochi.

Sono tanti i linguaggi ed i codici con cui ogni giorno le persone che vivono intorno a noi si scambiano contenuti matematici, spesso senza la piena consapevolezza che le caratteristiche delle rappresentazioni che tali linguaggi impongono possono avere conseguenze sui modelli che si formano nelle loro teste, e quindi sulle loro capacità di analizzare le situazioni. Sono tutti campi di studio che hanno ampie possibilità di ricadute didattiche.

 

OS: È stato imputato agli etnomatematici di concentrarsi troppo sulle differenze tra culture, una critica peraltro estendibile alle discipline etno- in toto, e poco sulle similitudini. E se ci fosse un sostrato comune che passa inosservato?

 

Il sostrato esiste senza dubbio ed è costituito dalla comune esperienza umana. Tutti gli stomaci hanno bisogno di cibo, tutti i corpi sentono lo spazio ed il tempo, ma ognuno a suo modo. D’altra parte se ingerissi certi oggetti che per qualcuno sono alimenti prelibati, potrei anche morire avvelenato. Lo stesso vale per i costumi sessuali ed il gusto estetico: certe cose che, anche col massimo della collaborazione io troverei repellenti, ad altri causano festose reazioni biologiche. Anche per la matematica potrebbe essere in qualche modo così. Chi dice che due più due fa quattro dappertutto commette l’ingenua scorrettezza di supporre che “due”, “più” e “quattro”, che di per sé sono oggetti che nella nostra realtà sensibile non esistono e che dobbiamo “vestire” di un’interpretazione, siano la stessa cosa per tutti e ovunque. È chiaro che se pensiamo al numero delle bottiglie da mettere in frigo una accanto all’altra (che sarebbe l’addizione) allora due più due fa quattro, ma già se parliamo di elettroni, di nuvole o di spiriti il discorso può anche essere diverso. Non si contano gli spiriti come le bottiglie, non ci si possono fare le stesse operazioni. E non si tratta la sabbia o l’acqua come i granelli di sabbia o le gocce d’acqua.

Del resto, la crisi dei fondamenti e la questione delle geometrie non euclidee ha insegnato ai matematici ad essere critici prima di tutto con le loro convinzioni più profonde e con ciò che appare ovvio e naturale.

Chi invece fa notare giustamente che nella storia di civiltà anche lontanissime si riscontrano scoperte matematiche sorprendentemente simili (il teorema di Pitagora, lo zero, la rappresentazione dei numeri naturali in base 10, i numeri negativi, il triangolo di Tartaglia, persino il concetto di infinito…), trascura che altrettanto si può dire delle produzioni artistiche ed architettoniche, delle attività economiche o delle forme di governo. Più che ricorrere ad un sostrato di realtà matematica si può pensare alla somiglianza dei problemi di cui quelle conoscenze matematiche costituivano la soluzione. Problemi concreti o simbolici, frutto di menti che, al di là delle differenze, si portavano dentro la comune struttura del cervello umano.

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