(Pubblichiamo in due parti – qui la seconda – l’intervista di Roberto Cantoni a Giovanni Nicosia, esperto di etnomatematica)
CULTURA – “Ovvio”, penserà una buona parte dei lettori leggendo il titolo. Quasi tutti coloro che abbiano frequentato una scuola superiore avranno infatti incontrato nella loro vita almeno un integrale. Ma l’integrazione di cui si parla qui non è quella dell’analisi matematica. Ci riferiamo invece a un’altra integrazione, quella culturale.
Le classi delle scuole italiane diventano sempre più multiculturali: in alcune zone d’Italia si è raggiunta una percentuale di tutto rispetto di studenti provenienti da famiglie di culture diverse da quelle italiane. Variando la cultura di provenienza degli alunni, varia anche il loro modo di comprendere: a ogni paese possono corrispondere una miriade di retroterra differenti (si pensi anche soltanto alla quantità di gruppi etnici presenti in India). Cambiano quindi le concezioni di studio e di scuola che gli studenti ereditano dalle famiglie; cambiano soprattutto le lingue. Ma non solo: anche materie considerate tradizionalmente “universali”, come la matematica, variano da un luogo all’altro. Lo scienziato strabuzza gli occhi e si chiede come sia possibile: lo abbiamo chiesto a Giovanni Nicosia, insegnante di superiori, collaboratore del Gruppo di ricerca e sperimentazione in didattica e divulgazione della matematica (Rsddm) e del Gruppo di studio internazionale di etnomatematica (Isgem). Nicosia ha pubblicato recentemente due libri, Alla scoperta delle culture matematiche nell’epoca della globalizzazione nel 2008, e Cinesi, scuola e matematica nel 2010, che affrontano proprio il tema del multiculturalismo in matematica.
OS: Nicosia, dopo molti Paesi d’Europa anche in Italia la scuola comincia a diventare multiculturale.
GN: In realtà, è molto tempo che abbiamo classi multiculturali, specialmente nel nord e in tutte le grandi città. Le differenze regionali e sociali sono rimaste enormi sino a quando la televisione e la grande distribuzione commerciale non le hanno piallate via, eliminando le lingue regionali e municipali (i cosiddetti “dialetti”) e uniformando i comportamenti. L’Italia è il Paese delle città-stato, dei rimescoli di popolazioni e delle migrazioni. E non si tratta di differenze da poco: lingue con lessico e sintassi anche molto diversi e con storie diverse (il bolognese, il sardo, l’albanese, il tedesco…), religioni (oltre alla presenza storica di ebrei e valdesi, chiediamoci che cosa avranno in comune il rito ambrosiano e certe forme di devozione che si incontrano al sud, pur nell’involucro del cattolicesimo italiano), e in generale modi di vivere, sistemi di credenze e usi. Se penso al condominio in cui sono cresciuto, a Bologna, diciamo negli anni ’80, in quindici appartamenti erano rappresentate sette regioni (tre in casa mia) e continuamente ci si stupiva per quello che dicevano o facevano i vicini.
A lungo questa diversità è stata vista come un peso e nascosto, forse perché contrario alle pretese di omogeneità dell’ideologia dello Stato-Nazione, ed è stato combattuto. Ma questo atteggiamento che animava l’azione della scuola e di tante altre istituzioni culturali ha fatto sparire codici e saperi.
Oggi siamo generalmente un po’ più aperti: per dirne una, le erbe che usano gli indios brasiliani o gli infusi della medicina tradizionale cinese sono allo studio delle multinazionali farmaceutiche, che hanno capito che ci può essere del buono e quindi da guadagnare.
OS: Crede che, per venire incontro alle nuove esigenze, occorrerà modificare i testi scolastici?
GN: L’obsolescenza dei libri e dei programmi è un eterno problema della scuola italiana. In campo matematico poi il conservatorismo di insegnanti, editori e persino studenti, che sono rassicurati dalle vie battute, è impressionante. Ha grande successo un testo la cui prima edizione risale agli anni ’40 del secolo passato! Un altro, anch’esso molto diffuso, risale alla fine degli anni ’60. Sempre aggiornati di anno in anno, con impaginazioni, figure e capitoli nuovi, e sempre mostruosamente uguali a loro stessi, presentano una matematica che si rivolge ad un pubblico che non esiste più. Ragazzi che hanno competenze nuove nate dall’uso del cellulare e di mille altri strumenti vivono una matematica che con la loro vita ha ben poco a che fare. Ho parlato delle superiori: alle elementari le cose vanno molto meglio, nel senso che gli insegnanti sono più coraggiosi nello sperimentare cose nuove. Tra gli aggiornamenti, insieme a qualche tema di storia della matematica, compaiono ora anche temi interculturali, ma per lo più velati da una forma di esotismo ingenuo. Si dice che i Cinesi “facevano” i quadrati magici, come se si potesse parlare solo di mandarini morti da mille anni. I Cinesi “facevano” i quadrati magici così come i Romani “facevano” gli acquedotti: oggi gli uni e gli altri fanno anche molte altre cose. Molti dei genitori dei nostri studenti di cultura cinese sanno usare con relativa destrezza il pallottoliere, in casa si dilettano di gare di calcolo mentale rapido, e se gli chiedi di fare una divisione ti stupiranno per l’algoritmo che usano. Ma ci sono insegnanti in tutte le scuole che non accettano che quello che hanno imparato ed insegnato loro: una divisione è corretta se e solo se è fatta con quell’algoritmo che ritengono l’unico universalmente valido, di cui magari ignorano la storia ed il nome. È una forma di provincialismo dalla quale la nostra cultura scientifica, quella vissuta nelle nostre scuole, stenta un po’ a liberarsi.
OS: Si è sempre parlato di differenze culturali in ambito letterario, storico, gastronomico. Ma almeno le scienze non dovevano essere “oggettive”?
GN: Direi piuttosto che ciò che dovrebbe stupirci è perché invece la matematica sia stata ritenuta unica ed universale, come se non fosse una delle tante attività umane, produzione di uomini aggregati in gruppi sociali che condividono simboli e codici di comunicazione. La pretesa oggettività della scienza si riduce, in realtà, alla rispondenza di una parte di queste produzioni a certi criteri di accettabilità che nel corso di secoli sono stati elaborati ed imposti universalmente da un gruppo sociale e culturale molto importante (quello che ha creato il sistema economico e simbolico interdipendente in cui viviamo oggi), ma non erano certo gli unici e inoltre sono molto cambiati nel tempo. Quello che era oggettivo per Galileo (se vogliamo tagliare fuori gli antichi) non lo era per tanti altri e non è detto che lo sia anche per i contemporanei, e d’altra parte credo che Galileo non avrebbe mai potuto accettare la teoria del caos o la meccanica statistica. In matematica tutto ciò è anche più evidente, anche se, curiosamente, meno accettato. Gli storici riconoscono a Cauchy il merito di avere finalmente dato una definizione di limite, ma se andiamo a leggere i suoi testi del 1821 e 1823 troviamo che le asserzioni sono concatenate in un modo che ai contemporanei non suona corretto: anche il rigore logico è esposto alle evoluzioni della storia. Nella storia della scienza ci sono molti casi del genere. Le scienze evolvono, oltre che per sviluppi interni, soprattutto in relazione alle esigenze delle società e dunque possono essere molto diverse tra loro per interessi e per metodi a seconda del gruppo umano che le produce. L’agopuntura è oggi considerata una terapia scientifica dalla maggior parte dei medici, ma una trentina d’anni fa la si derideva come una specie di stregoneria. Cose del genere sono successe anche al matematico boemo Bolzano (che era un tipo controcorrente per diverse ragioni) e al tedesco Dirichelet.
OS: A proposito di multiculturalità: è molto diffusa l’idea che gli studenti cinesi e indiani siano particolarmente dotati in matematica. Lei che ne pensa?
GN: È verissimo. Salvo variabili individuali, solitamente gli studenti cinesi e dell’area indiana sono moto bravi. Seguono poi i ragazzi dell’Europa dell’Est e del decaduto impero sovietico. Lo dimostrano sia le rilevazioni internazionali (le più famose sono P.I.S.A. e T.M.M.S.) sia le testimonianze di tanti insegnanti delle scuole italiane. Imparano in fretta le procedure e le definizioni ma sono bravi anche nelle inferenze e deduzioni, che sono la parte interessante ed utile.
Le spiegazioni di tali ottime capacità sono diverse. Prima di tutto nelle culture cinese e indiana la scuola è importantissima. Nelle famiglie di questi ragazzi si ha l’idea che per studiare abbia senso affrontare anche grandissimi sacrifici e che quando si è a scuola ci si debba comportare molto seriamente. Le famiglie fanno grande propaganda perché i loro rampolli si impegnino al massimo e ottengano ottimi risultati. D’altra parte in Cina e in India è anche vero che il voto in matematica ed in inglese può fare grandi differenze nella vita futura, può aprire delle carriere, e forse è questo che hanno in testa quei genitori, anche se in Italia la situazione è ben diversa. La scuola non è vista solo come preparazione ad uno studio di ordine superiore (tipicamente l’università) ma come formazione della personalità per la vita futura. Inoltre l’autorità dell’insegnante è rispettatissima. Tutto questo vale in misura un po’ meno accentuata anche per gli studenti dell’Europa dell’Est, le cui famiglie propongono spesso idee di scuola legate a metodi senza dubbio un po’ opprimenti, ma basate comunque su di un intenso impegno personale.
C’è poi un secondo motivo, anche questo di carattere socioculturale: tra i diversi campi del sapere e delle attività ritenute interessanti, cinesi, indiani, romeni e russi mettono ai primi posti proprio la matematica. Passatempi matematici caratterizzano le storie di queste culture, ci sono testimonianze anche molto antiche di attività di raccolta di problemi e manualistica tecnica e scientifica. Si raccontano leggende in cui il ragionamento logico è la chiave per il trionfo dei protagonisti sulle avversità, e le opere dell’ingegneria e della tecnologia (dalla Grande Muraglia allo Sputnik) sono sovente apprezzate per le loro caratteristiche tecniche. Nel sentire diffuso di queste popolazioni una persona è ritenuta colta o intelligente se conosce molta matematica, a differenza di quanto accade nella cultura italiana, in cui si prediligono le lettere e le arti.
Un terzo motivo riguarda invece la struttura delle lingue e dei sistemi di rappresentazione dei numeri. Studi linguistici e statistici dimostrano un’interessante connessione tra la lingua cinese e la buona riuscita in matematica in scuole di diversi Paesi. Il sistema della lingua cinese per nominare e scrivere i numeri (cioè il sistema dei “numerali”) è forse quello più regolare al mondo, per cui basta pronunciare o scrivere per bene un’addizione perché essa appaia già in una forma comoda per i calcoli. Ciò è particolarmente evidente per le somme tra numeri della seconda decina, che invece fanno impazzire gli studenti delle prime classi delle elementari italiane. Riuscendo bene fin dall’inizio, i bambini cinesi non si spaventano dei calcoli, non associano alla matematica l’idea di una materia difficile e noiosa, e quindi proseguono con buoni risultati.
Qualcosa di simile si può dire dei bambini russi e romeni, che in più hanno una lingua ricca di concordanze e declinazioni che li abitua al ragionamento logico.
Un ultimo elemento si può trarre dalla struttura della lingua cinese, che è composta di caratteri da comporre tra loro con modalità che stimolano il ragionamento algebrico. Anche le modalità di scrittura delle lingua indiane hanno probabilmente effetti positivi sul modo di rappresentare numeri e spazio.
(Lunedì prossimo pubblicheremo la seconda parte dell’intervista a Giovanni Nicosia)