LA VOCE DEL MASTER – A tutti noi, credo, è capitato di rimanere incantati e increduli nell’ascoltare i nostri nonni di quando da giovani facevano il bagno nel fiumiciattolo davanti casa, o nel laghetto di campagna, dove adesso il bagno lo fanno solo le nutrie e qualche tartaruga d’acqua cresciuta troppo, e per questo sfrattata dall’acquario domestico. Per noi è “normale” che quel laghetto sia inavvicinabile. Lo abbiamo sempre visto così. E se un giorno ci troveremo a raccontare ai nostri nipoti, che a loro volta ci ascolteranno incantati e increduli, che da giovani facevamo il bagno nel mare?
Il punto non è la nostalgia dei tempi andati, ma il patrimonio della memoria ambientale. Le testimonianze, i ricordi, i racconti del passato possono essere fondamentali per ricostruire la storia di un certo ambiente – mari, laghi, fiumi, boschi, montagne – e per conoscere com’è cambiato nel tempo e perché.
Laddove mancano altre forme di “archivio”, queste informazioni orali, tramandate di generazione in generazione, hanno un valore prezioso. Anche per gli scienziati. I quali, seppur per molto tempo hanno sottovalutato questa fonte (a causa della poca familiarità nei confronti delle discipline umanistiche, considerate discipline esclusivamente speculative, e quindi non “scientificamente valide”), sono sempre più consapevoli della sua importanza, attingendo sempre più spesso a quella che viene chiamata “conoscenza ecologica locale” (dall’inglese Local Ecological Knowledge). Ovvero: quel patrimonio di conoscenze ecologiche conservate nell’esperienza umana.
Qualche esempio? Un articolo pubblicato da poco su AMBIO: A Journal of the Human Environment, firmato dalla ricercatrice Monica Hammer e colleghi, invoca il ricorso alla conoscenza ecologica locale nell’implementazione della EU Water Framework Directive in Svezia. I principali obiettivi della direttiva sono proteggere le acque europee, raggiungere un “buono stato ecologico” di tutte le fonti idriche entro il 2015 e coinvolgere attivamente cittadini e diversi portatori d’interesse nella gestione delle risorse idriche. Gli autori sottolineano come il ricorso alla conoscenza ecologica locale dei contadini sia essenziale nell’identificare le fonti idriche prioritarie, valutarne i cambiamenti rispetto allo stato “naturale” (o comunque passato), e definire una gestione condivisa dai fruitori locali. Ecco che il ricorso alla memoria diventa essenziale.
Un altro esempio riguarda uno studio coordinato dalla ricercatrice messicana Andrea Sáenz-Arroyo, pubblicato nel 2005 sui Proceedings of the Royal Society B, che ha coinvolto i pescatori (e la loro memoria) del Golfo della California. Sono stati intervistati 108 pescatori equamente distribuiti in fasce d’età: giovani, adulti e anziani. Agli intervistati è stato chiesto di valutare se, per quanto riguardava la loro esperienza di pesca, alcune specie avessero mostrato un declino nel tempo. È emersa la presenza di un rapido cambiamento tra le generazioni nella percezione dell’ambiente marino: per i pescatori più giovani è risultato “normale” considerare rare alcune specie, un tempo abbondanti, e non pescare affatto in alcune zone, un tempo pescose, a differenza dei pescatori veterani. Inoltre, la ricerca si è focalizzata su una specie a rischio d’estinzione, la cernia Mictoperca jordani. I risultati delle interviste hanno evidenziato un declino significativo del numero di cernie catturate in una giornata di pesca e delle dimensioni massime degli esemplari tra i pescatori più anziani e i più giovani. È importante notare che questa ricerca ha permesso di ottenere dati quantitativi analizzabili mediante un semplice approccio statistico, là dove non esistevano dati raccolti ad hoc seguendo i crismi del metodo scientifico.
Ricostruire com’erano gli ecosistemi nel passato, come sono cambiati su ampia scala temporale, quali fattori hanno determinato tali cambiamenti è il campo d’indagine dell’ecologia storica. Uno degli approcci dell’ecologia storica prevede proprio di “attingere” alla conoscenza degli anziani, di coloro che conoscono e vivono a stretto contatto con l’ambiente, che lo hanno visto cambiare. I testimoni oculari del cambiamento. Shackeroff e Campbell (2007) hanno definito la conoscenza ecologica locale come “un insieme di conoscenze che si crea nel tempo attraverso una varietà di esperienze individuali e collettive e di osservazioni mediate dalla cultura, in riferimento a fattori ambientali e dinamiche ecologiche”. Uno strumento utile perché non si perda coscienza dei cambiamenti che stanno coinvolgendo, sempre più velocemente, l’ambiente in cui viviamo. Per scongiurare quella che nel 1995 Daniel Pauly, professore presso l’UBC Fisheries Center and Zoology Department dell’Università di Vancouver (Canada), in un contributo apparso sulla rivista Trends in Ecology and Evolution definì “la sindrome dello spostamento dei punti di riferimento” (Shifting baselines syndrome). Sebbene l’intervento di Pauly fosse riferito in particolare allo sfruttamento delle risorse marine, non mancava di implicazioni di rilevanza generale: bisogna ampliare la finestra temporale attraverso cui guardiamo l’ambiente e i suoi cambiamenti, cercando di definire un punto di riferimento il più possibile distante nel tempo (e quindi prossimo allo stato “naturale”). Pauly traeva spunto da un insieme di ricerche che dimostravano come, almeno dal secondo conflitto mondiale, si sia andati incontro ad un processo di progressiva erosione della biodiversità non solo a livello terrestre (dove tale fenomeno è maggiormente palese, vista la relativa facilità con cui questo ambiente è osservabile), ma anche negli ambienti marini. Il concetto di Shifting baselines è diventato un vero paradigma dell’ecologia moderna, ispirando anche una collaborazione tra scienziati della conservazione e Hollywood, che ha portato alla realizzazione di materiale informativo, come questo video prodotto dalla Surfrider Foundation sui cambiamenti dell’ambiente marino percepiti da chi il mare lo ama davvero: i surfisti.
Ma come può la conoscenza ecologica locale informare la scienza tradizionale, ovvero la conoscenza ecologica scientifica? Esistono alcune differenze sostanziali tra le due. La prima, essendo radicata nella tradizione culturale e nell’esperienza, e acquisita attraverso un processo non formalizzato, è generalmente aneddotica e qualitativa. Al contrario, la seconda trova fondamento nel metodo scientifico, e di conseguenza è basata sul principio della verifica delle ipotesi mediante l’acquisizione di dati raccolti attraverso esperimenti condotti ad hoc. La presunta “oggettività” della conoscenza scientifica si riflette nel fatto che essa pretenderebbe di non essere influenzata dalla soggettività umana.
Alla luce di queste marcate differenze, è lecito chiedersi come la conoscenza ecologica locale possa fornire informazioni valide alla conoscenza ecologica scientifica. In altre parole: perché gli scienziati dovrebbero preoccuparsi della conoscenza ecologica locale, se questa forma di conoscenza in genere non è obiettiva, quantitativa e standardizzata?
Una risposta pratica potrebbe essere: perché è meglio di niente! Oppure, più formalmente: in aree caratterizzate da scarsa disponibilità di dati, se le uniche informazioni disponibili possono essere raccolte mediante la conoscenza ecologica locale è meglio utilizzarla (soprattutto prima che le persone depositarie delle informazioni richieste passino a miglior vita). Inoltre, se sono disponibili pochi dati scientifici che hanno bisogno di essere corroborati da informazioni collaterali, la conoscenza ecologica locale può fornire tali informazioni. Esistono diverse metodologie che, seguendo un gradiente che va da un approccio qualitativo a uno quantitativo, consistono in testimonianze orali, interviste semi-strutturate e interviste strutturate. Le testimonianze orali sono descrizioni qualitative di carattere aneddotico del tipo “quand’ero giovane ogni estate facevamo il bagno nel canale qui di fronte, e l’acqua si poteva anche bere!”. Le interviste semi-strutturate consistono invece in una serie di domande a risposta aperta, condotte per ottenere informazioni di tipo qualitativo: “quando sei andato per mare la prima volta, c’era più o meno pesce di adesso?”. Infine le interviste strutturate generalmente sono basate su domande a risposta chiusa, a risposta multipla, oppure vero/falso. Interviste semi-strutturate e strutturate, possono fornire dati analizzabili statisticamente.
Alla luce di quanto detto, è ora più facile capire perchè sono sempre di più i casi in cui gli scienziati si rivolgono alla conoscenza ecologica locale per perseguire obiettivi di conservazione e ripristino ambientale. E magari sarà proprio grazie alle memorie dei nostri nonni se un giorno, anche noi, torneremo a fare il bagno nel fiumiciattolo di fronte casa.