AMBIENTE - Pescare una cernia bruna (Epinephelus marginatus) di mezzo metro è il sogno di molti pescatori ricreativi, mentre vedere una cernia bruna di un metro durante un visual census in una riserva marina è il sogno di molti biologi. Ma di certo essere inghiottiti da una cernia bruna mentre si fa snorkeling lungo le coste del Mediterraneo non è il sogno (o meglio, l’incubo) di nessuno, tanto è raro questo pesce.
In una lettera pubblicata su Frontiers in Ecology and the Environment, due ricercatori italiani (il primo, Paolo Guidetti, lavora presso l’Università del Salento a Lecce; la seconda, Fiorenza Micheli, lavora presso l’Università di Stanford, Stati Uniti) ci fanno sapere che per quanto nelle riserve marine italiane le cernie brune stiano meglio che nelle aree non protette, in passato questa specie era decisamente più abbondante e raggiungeva dimensioni molto maggiori. Lo studio si basa sull’analisi di più di settanta mosaici romani che si trovano in Tunisia, Inghilterra, Francia, Spagna, Italia, Grecia e Libano, risalenti al periodo tra il primo e il quinto secolo dopo Cristo: raffigurazioni di cernie enormi, così grandi da poter inghiottire un uomo (tranquilli, le cernie non attaccano l’uomo, si tratta probabilmente di una licenza artistica), pescate in abbondanza sotto costa con arpioni e canne. Osservazioni corroborate da alcuni scritti di Plinio il Vecchio (Historia Naturalis) e Ovidio (Halieuticon Liber), che narrano di cernie pescate dalla costa, così tenaci da spezzare le lenze, così grandi da essere descritte come “mostri marini”
LA VOCE DEL MASTER - Il Conte Agapito, nella sua Descrizione della città di Trieste pubblicata nel 1824, raccontava: “nelle pesche di Barcola e di Grignano si prendono tonni dei quali vengono fatte annualmente delle salagioni che spediti vengono per gli Stati austriaci, per la Germania ed anche per la Sicilia”. Le tonnare di Trieste oggi sono solo un ricordo, o forse nemmeno quello, visto che di tonni nel golfo friulano non se ne vedono più.
Molto si è scritto e detto, anche in questo blog, dello stato preoccupante in cui versano le popolazioni di tonno rosso (Thunnus thynnus). In un articolo pubblicato nel 2009 su Conservation Letters, Brian McKenzie e colleghi denunciavano l’inadeguatezza delle quote ICCAT, l’ente preposto alla definizione delle quote di pesca del tonno per il Mediterraneo e l’Atlantico, per la conservazione della specie, prevedendo che nel 2011 la popolazione adulta di tonni si sarebbe ridotta del 75% rispetto il 2005. Ma se andiamo un po’ più indietro nel tempo, il declino di questa specie ci sembrerà ancora più drammatico.
LA VOCE DEL MASTER - Per molte specie, in particolare per i primati (ma anche per alcuni invertebrati, come le vespe), la vita sociale rappresenta un vantaggio adattativo importante, che si è evoluto nel tempo. La centralina della nostra socialità sembrerebbe risiedere nell’amigdala, una piccola regione del cervello posta in corrispondenza delle tempie. E parlando di amigdala, si può affermare che le dimensioni contano. Un gruppo di ricercatori americani, coordinato dalla psichiatra Lisa Feldman Barrett del Massachusetts General Hospital and Harvard Medical School (Stati Uniti), ha infatti individuato una correlazione tra il volume dell’amigdala e le dimensioni e la complessità delle relazioni sociali negli uomini. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature neuroscience, e richiama “l’ipotesi del cervello sociale”: la capacità di vivere in un gruppo numeroso e complesso di persone (o più in generale, di propri simili) dipende da alcune aree del cervello deputate a funzioni sociali, come l’identificazione e il giudizio del prossimo. Già si sapeva che i primati che presentano una vita sociale più articolata hanno un’amigdala di dimensioni maggiori, ma si tratta del primo studio che si occupa di differenze all’interno di una singola specie, e in particolare dell’uomo.
LA VOCE DEL MASTER - Per molte specie la vita sociale rappresenta un vantaggio adattativo importante, e sembra sia una questione di “cervello”. Nei mammiferi e negli uccelli, più grande è il cervello, maggiore è la socialità. Un recente studio americano, pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, ha dimostrato che anche per le vespe è così: vespe più grandi hanno un cervello più grande, e di conseguenza maggiori capacità cognitive.
Questo studio riguarda ovviamente le cosiddette “vespe sociali” (in particolare la vespa cartonaia, famiglia Vespidae, sottofamiglia Polistinae). Esistono infatti vespe sociali e vespe solitarie. Anzi, vespe eusociali, termine coniato appositamente per identificare la socialità degli insetti, caratteristica che ne contraddistingue solo pochi ordini. Nel mondo delle vespe si considera eusociale una colonia nella quale i membri allevano in comune la prole, presentano una divisione del lavoro in caste di tipo riproduttivo (la regina: femmina fecondata, le operaie: femmine sterili, e maschi fertili) e presentano una sovrapposizione di generazioni (i figli rimangono assieme ai genitori)
LA VOCE DEL MASTER - Uno studio americano pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, il primo così approfondito, ha rilevato un vistoso declino di alcune specie di calabrone (nella fattispecie, Bombus occidentalis, B. pensylvanicus, B. affinis, e B. terricolae) e una netta contrazione del loro areale di distribuzione negli Stati Uniti e in Canada. La ricerca, durata tre anni, si è basata su dati storici, più di 73.000 documenti museali raccolti dal 1800 in poi, relativi a circa 400 siti, confrontati con monitoraggi condotti a livello nazionale che hanno coinvolto più di 16.000 campioni.
LA VOCE DEL MASTER – Dal 18 al 20 novembre 2010 si è tenuta a Dublino, presso il Trinity College, la conferenza “Oceans Past III: Stories from the sea - history of marine animal populations and their exploitation” in conclusione del progetto decennale History of Marine Animal Populations, la componente storica del Census of Marine Life.
Il progetto ha coinvolto più di 100 storici, ecologi, scienziati della pesca, biologi e archeologi dal Canada alla Nuova Zelanda, passando per il Mediterraneo, per cercare di rispondere alle domande: com’erano i mari nel passato, prima dell’attuale sfruttamento eccessivo, dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento? È possibile ricostruire la storia del mare, e che importanza può avere oggi per le attività umane?
Il messaggio che è emerso in questa tre giorni dedicata all'ecologia storica dei mari, cui hanno partecipato circa 200 ricercatori da tutto il mondo in un’atmosfera decisamente informale, è che sì, si può, ed è essenziale per l’attuale gestione e conservazione degli ecosistemi marini.