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Data Journalism – Intervista a Luca De Biase

Luca De Biase

JEKYLL – Luca De Biase, giornalista de Il Sole 24 Ore, dal 2010 è presidente della Fondazione Ahref, impegnata nella ricerca sulla qualità dell’informazione su internet e i media digitali per rendere le nuove forme di giornalismo sempre più credibili. Abbiamo parlato con lui di data journalism, ovvero “una forma di giornalismo basata sulla raccolta, l’analisi, l’elaborazione, la spiegazione e la narrazione dei dati numerici”. Narrazione affidata a “grafici di varia natura animati su iPad e su computer”, come ci spiega De Biase.

Il data journalism è un filone giornalistico le cui origini si possono ricondurre all’uscita, nel 1969, del libro di Philip Meyer Precision Journalism: A Reporter’s Introduction to Social Science Methods”. Meyer descriveva il giornalista come uno scienziato che si avvale degli strumenti della scienza per raccontare una storia dove, più che la sensazionalità della notizia stessa, è fondamentale il rigore del metodo di analisi dei dati. Dalla metà degli anni Novanta, negli Stati Uniti, sono nate scuole per formare giornalisti con queste competenze, mentre in Italia il data journalism è ancora in fasce. Basti pensare che il libro di Meyer è stato tradotto in italiano solo nel 2006 (Giornalismo e metodo scientifico: ovvero il giornalismo di precisione. Armando Editore).

“Noi non siamo mai stati un paese paragonabile agli Stati Uniti in termini di produzione dei dati”, dice De Biase, e “l’approccio culturale italiano è molto orientato al ragionamento umanistico, alla filosofia e all’ideologia, alla contrapposizione di valori, rispetto a una ricerca orientata alla fattualità”. Un caso emblematico di “questo tipo di difficoltà italiana” è quando “nel 2008 è uscita una previsione del Centro Studi di Confindustria, basata su dati econometrici, che dichiarava che l’economia italiana era in rallentamento, e l’allora Ministro dello Sviluppo Economico (NdR Claudio Scajola) disse che la Confindustria portava sfortuna, ‘gufava’. Se ci sono dei dati, e c’è un’elaborazione condotta con un metodo confrontabile con altri, l’unico commento non può essere che ‘porta sfortuna’, cioè traslare dall’analisi dei dati alla superstizione”.

Alla richiesta di raccontarci una bella inchiesta giornalistica italiana basata sui dati De Biase ha esitato, a conferma che in Italia questo approccio è ancora poco praticato.

A differenza degli Stati Uniti, inoltre, in Italia è ancora scarsa l’offerta formativa nell’ambito del data journalism. “Siamo molto autodidatti, e il passaparola tra giornalisti o persone che fanno informazione è il modo prevalente con il quale si impara. Questo è il tipico modo artigiano di apprendimento giornalistico: il veder fare che comanda. Ma ci sono dei percorsi, e c’è domanda per dei percorsi più strutturati. Abbiamo organizzato, come Ahref, in collaborazione con l’ISTAT, un corso a Roma di data journalism e in ventiquattro ore si è riempito. La domanda è stata senz’altro superiore ai posti disponibili, quindi ne faremo degli altri”.

Buone notizie, insomma, per chi fosse interessato a questa professione. Che ci aspettiamo sia in rapida ascesa, vista anche la sempre più ampia diffusione di internet e delle tecnologie digitali e la crescente disponibiltà di banche dati pubbliche. Abbiamo salutato De Biase con un’ultima domanda: come ha contribuito la rete alla nascita del data journalism? La risposta nel video:

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