Una ricerca dell’Università di Padova e dell’OGS di Trieste mira a comprendere la dinamica del disastro del Vajont. Per prevenirne altre in futuro
NOTIZIE – La sera del 9 ottobre del 1963 circa 300 milioni di metri cubi di terra e roccia si staccarono dal versante settentrionale del monte Toc per franare nel bacino artificiale sottostante creato dalla diga del Vajont. Quello che seguì fu molto simile alle immagini dello tsunami che abbiamo visto nei mesi scorsi in televisione. Si sollevò una massa d’acqua che diede origine a due ondate che travolsero persone e case, distruggendo interi centri abitati. Una tragedia che ha causato 1910 vittime e che è ancora viva nella memoria grazie anche a spettacoli come quello di Marco Paolini.
Oggi i ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste hanno avviato un progetto congiunto per esamimare l’area della frana e dei dintorni da un punto di vista elastico-acustico, con tecnologie più moderne di quelle usate in passato. Lo scopo è di ottenere un modello 3D in grado di descrivere la caduta e la deformazione del terreno, fornendo indicazioni sulle caratteristiche di elasticità delle rocce e del terreno franato.
Le ricadute di questo progetto potranno essere applicate non solo al Friuli Venezia Giulia e al Veneto, regioni direttamente coinvolte, ma anche ad altre zone colpite da dissesto idrogeologico, infatti ci sono aree di grosse masse rocciose instabili su tutto l’arco alpino.
Per capire meglio come lavoreranno i ricercatori, abbiamo intervistato Massimo Giorgi, ricercatore del Dipartimento di Geofisica della Litosfera, responsabile scientifico del progetto per l’OGS, che lavorerà al modello assieme al collega Roberto Francese e al gruppo padovano guidato da Rinaldo Genevois.
“Il lavoro fa parte del progetto Geo-risk, un progetto strategico di eccellenza dell’ateneo di Padova, che coinvolge diversi dipartimenti per indagare varie problematiche di rischio con un impatto nel nord est dell’Italia. Noi collaboreremo allo studio delle problematiche geologiche e idrogeologiche per creare una modellizzazione adeguata della frana del Vajont. A tal proposito anche la regione Friuli Venezia Giulia ha deciso di stanziare un finanziamento a supporto.
Come possiamo oggi studiare un evento che è successo 48 anni fa?
“Già prima del 1963, il geologo Semenza aveva studiato la zona e scoperto che esistevano gli indizi di una paleofrana scesa dal monte Toc, che si è riattivata quel 9 ottobre. Oggi possiamo studiare la situazione con dei processi di back analyses della frana e ricostruire un modello 3D elastico/acustico, utilizzando le onde trasversali e compressionali di tutto il corpo di frana, grazie alle nuove tecnologie di cui disponiamo”.
Quali strumenti utilizzerete?
“Noi ci occuperemo principalmente dei rilievi sismici e geoelettrici, per caratterizzare meglio l’ammasso di frana.
Per fare i rilievi sismici verranno realizzati dei piccoli terremoti artificiali. Utilizzeremo una sorgente vibrazionale (il Minivib) che genera delle onde elastico-acustiche che si trasmettono nel terreno in tutte le direzioni. Quando queste incontrano un’interfaccia tra due materiali che hanno densità diversa, vengono riflesse e rifratte e i dati vengono registrati dai geofoni, che sono dei sensori posti sulla superficie. Possiamo dire che le onde principalmente possono essere di due tipi: le onde longitudinali (P) e le onde trasversali (S). Per quelle P la perturbazione viaggia nella stessa direzione in cui viaggia l’onda, mentre per quelle S, le particelle si muovono ortogonalmente al senso di direzione. Queste ultime sono dette anche onde di taglio e sono quelle che causano i danni maggiori nel caso di terremoti, tagliando le forze fra i granuli che tengono i materiali assieme. Con l’analisi sismica possiamo quindi ottenere una radiografia del sottosuolo, senza alcun pericolo per l’ambiente.
I rilievi geoelettrici invece vengono fatti ponendo picchetti ad intervalli regolari. Dopodiché viene immessa una corrente e sulla base della diversa conducibilità elettrica di ogni materiale, possiamo capire di che tipo di materiale si tratta e distinguere ad esempio le argille dalle rocce calcaree e da quelle vulcaniche, ecc. Questa non è una metodologia risolutiva come la sismica, ma in questo modo è possibile distinguere zone diverse e dare un supporto all’interpretazione dei dati. Quella del Monte Toc non è una zona facile, perchè la vegetazione ormai ha colonizzato parecchia superficie e questo complica le analisi che dovremo fare”.
Cosa ci dirà il modello e come potrà essere utilizzato?
“Il modello 3D che intendiamo ricostruire ci permetterà di descrivere la superficie di scivolamento all’interno della frana, per capire se durante il distacco del versante montuoso si sono determinati scivolamenti a diversa velocità e zone di rottura che hanno amplificato il disastro. I dati del nostro modello verranno associati con quello geofisico, che verrà fatto a Padova e si vedrà se sono compatibili”.
L’obiettivo successivo sarà trasformare il modello in uno strumento previsionale da applicare in zone con analoghe caratteristiche geo-morfologiche e dinamiche, per evitare, ove possibile, il ripetersi di sciagure analoghe.