I cittadini italiani hanno da poco archiviato il nucleare grazie ad una mobilitazione che non si registrava da sedici anni. Da dove riparte il dibattito pubblico sulle strategie energetiche in Italia? Sicuramente dal gas e dai rapporti diplomatici che supportano fabbisogno nazionale. Perchè l’energia è anche una questione geopolitica
LA VOCE DEL MASTER- Smaltita la sbornia dell’inaspettato successo dei referendum del 12 e 13 giugno, la questione energetica nel nostro Paese non potrà più essere gestita a colpi di slogan. La crescente domanda di partecipazione scientifica emersa da più della metà degli aventi diritto a votare merita di essere soddisfatta più che mai.
Dalle urne non è uscito solo il “no” alla costruzione di centrali per la produzione di energia atomica ma anche un chiaro invito a rivedere le politiche energetiche italiane. Già, perché la tanto citata indipendenza in questo settore, rivendicata proprio dai fautori del nucleare made in Italy, entra a gamba tesa nel dibattito post-referendum. Uno a uno, palla al centro e si riparte. Sì, ma da dove? Nonostante una lieve flessione, dovuta alla recessione economica, nel 2009 la domanda italiana di energia si è attestata intorno ai 180 Mtep mentre i consumi finali sono stati di circa 130 Mtep nello stesso anno. Nel Paese di “santi, poeti e navigatori”, però, manca la cosiddetta materia prima, indispensabile per generare energia. Dunque, in assenza di sufficienti giacimenti di combustibili fossili, l’energia che utilizziamo per riscaldarci o illuminare proviene d’oltreconfine. Sulla mancanza di petrolio, gas e carbone nel sottosuolo italiano pesa ancora di più lo stentato decollo delle rinnovabili, al centro di recenti polemiche tra il neo-ministro della Sviluppo Economico, Paolo Romani, e gli imprenditori dell’energia “pulita”, che hanno visto diminuirsi di molto le agevolazioni fiscali per l’impianto di pannelli fotovoltaici o di pale eoliche. Se le rinnovabili non crescono quanto dovrebbero, almeno secondo quanto indica l’Europa, resta l’unica via percorribile: l’importazione.
Al netto delle esportazioni e della variazione delle scorte, l’Italia importa oggi circa l’85% del proprio fabbisogno energetico: un triste primato che, nel caso in cui l’attuale scenario restasse immutato, potrebbe sfiorare quota 95% nel 2020. Se la fetta di importazioni non è diversificata in molti spicchi ma concentrata su una fonte predominante, i rischi potrebbero essere ancora più elevati.
La “fetta” in questione è quella coperta dal gas: inizialmente una scelta strategica, soprattutto dopo la crisi petrolifera degli anni Settanta, diventata poi un’arma a doppio taglio. Perché la grande specializzazione raggiunta dall’Italia in questo settore ha fatto sì che il gas diventasse la prima fonte di energia per la produzione elettrica; lo testimoniano anche i crescenti investimenti nelle centrali a ciclo combinato gas-vapore. Un canto delle sirene per il Bel Paese che, ammaliato dall’estrema duttilità, dall’economicità e dal ridotto impatto ambientale, ha puntato tutto sul cosiddetto “oro azzurro”. Russia e Algeria coprono la maggior parte delle importazioni (rispettivamente il 33,1% e il 32.8%); seguono la Libia, oggi una polveriera, Paesi Bassi e Norvegia (rispettivamente il 13,2%, il 10.4% e il 6.9%).
Le questioni si fanno più complesse quando, alla condizione di dipendenza dall’estero, si aggiunge che il mercato del gas è meno trasparente di quello del petrolio e, in assenza di una quotazione internazionale o di un cartello di paesi produttori, è vincolato ad accordi bilaterali. Un’anomalia nell’anomalia, in cui l’Italia sembra essere estremamente disinvolta e spregiudicata: dai grandi gruppi industriali, nati in seguito al processo di privatizzazione dei servizi energetici e dalle recenti liberalizzazioni, agli enti governativi.
Sugli accordi italo-russi per il gasdotto “South Stream”, che rafforza il monopolio russo nel Vecchio Continente, e sul naufragio del progetto europeo “Nabucco” che, passando dal Mar Caspio, estrometterebbe Mosca nella partita del gas, si è occupata anche di recente un’inchiesta di Report, la trasmissione di Rai3 condotta da Milena Gabanelli. Gli interessi in ballo possono essere riassunti in una cifra con molti zero; basti pensare che il 40% dei ricavi di Gazprom, il colosso energetico russo, proviene da Italia e Germania. Nonostante l’Eni sia il partner principale di Gazprom nella realizzazione di “South Stream”, il costo dell’energia italiana è più cara del 30% rispetto alla media europea.
Dunque, bollette più salate e indipendenza energetica sempre più lontana: ma quanto sono reali i rischi di una politica importatrice in campo energetico? Lo abbiamo chiesto Giorgio Arfaras, membro del Consiglio Scientifico di Limes e direttore di Economia@Centroeinaudi.
Partendo dalla cronaca di questi ultimi mesi, quanto incide il conflitto libico in termini di approvvigionamento energetico nel nostro Paese?
In questi ultimi mesi di crisi libica non è stato registrato un considerevole cambiamento dello scenario energetico. Questo perché entrano in ballo altri varianti: la presenza di stock petroliferi nei paesi consumatori e l’esistenza di altri attori con delle riserve petrolifere cospicue, come l’Arabia Saudita, sono in grado di bilanciare ricadute negative sul fronte dei prezzi. A questi due fattori bisogna aggiungere anche la natura della domanda energetica dei paesi compratori, che può essere rigida o diventare elastica nel tempo. Presupponendo che durante lo shock politico la Libia riduca la produzione di petrolio e considerando una domanda rigida, è possibile che il prezzo della materia prima salga ma non impenni, per via delle scorte nazionali. Se la produzione libica resta ridotta per un tempo prolungato, allora il prezzo del petrolio torna a salire, man mano che ci si avvicina all’esaurimento del magazzino. In questo contesto, si potrebbe ipotizzare che l’Arabia Saudita entri in azione prima che i magazzini siano esauriti e prima che cambi la curva di domanda dei paesi produttori, offrendo una quantità di petrolio pari alla minore quantità offerta dalla Libia. In questo caso, l’offerta è identica a quella iniziale e il prezzo torna dov’era. Per tornare dov’era si deve supporre che il petrolio saudita e quello libico siano “fungibili”, ossia che essi siano della stessa qualità, oppure che gli impianti di raffinazione siano in grado di lavorarli entrambi fin da subito. Se queste ipotesi sono corrette, non ci dovrebbero essere dei grandi pericoli. Fatta eccezione per la capacità produttiva inutilizzata dell’Arabia (non deve essere inferiore a quella stimata) e per l’aumento dei suoi consumi interni.
La “scommessa sul gas” effettuata dall’Italia in tempi non sospetti era risultata strategica, soprattutto alla luce della volatilità dei prezzi degli idrocarburi. In che termini, oggi, potrebbe risultare un pericoloso autogoal per la nostra autonomia?
Non penso che i paesi produttori avrebbero degli interessi a chiudere i rubinetti del gas anche perché importano quanto serve loro grazie alla vendita del gas stesso. Il ragionamento è quello dell’interesse reciproco. Se non vendono il gas, non hanno la valuta per importare. Dunque potrebbero minacciare un blocco delle forniture solo in caso di un vero scontro politico militare che, al momento, non si intravvede. Inoltre, i paesi produttori finanziano la propria spesa pubblica con gli introiti energetici. Non ci sono paesi con un sistema fiscale diffuso in grado di supportare la spesa pubblica (tranne ovviamente i paesi produttori avanzati, come, per esempio, gli Stati Uniti e la Norvegia). Il prezzo del petrolio intorno agli 80 dollari al barile finanzia la loro spesa pubblica. I produttori non hanno interesse a tagliare per periodi prolungati le vendite, perché non hanno un’economia capace di generare imposte. Poi – va ricordato – che non si riesce ad avere una “tassazione senza rappresentanza politica”. E i produttori di materie prime sono quasi sempre paesi autocratici. Dunque è facile che restino aggrappati alla loro “rendita” politica.
In seguito alla crisi petrolifera degli anni Settanta, molti dei paesi occidentali si erano orientati verso la privatizzazione delle società di settore nella convinzione che l’energia non fosse così diversa da ogni altra merce o servizio e che, applicando le leggi di mercato, si sarebbe scongiurato il rischio di una nuova emergenza. Una visione miope che non ha messo a fuoco un sistema ben più complesso?
Anche i mercati possono giudicare le situazioni complesse e, naturalmente, possono anche sbagliare, tanto quanto i politici. In ogni modo, si possono varare delle politiche energetiche che instradino le imprese private e i mercati.
Sulla questione energetica, l’Europa non sembra avere proprio le idee chiare: il caso “Nabucco” ha rappresentato un pericoloso antecedente. La Russia tiene davvero sotto scacco il Vecchio Continente? Oppure è l’Europa che trae maggiori benefici dal fatto che, a causa dei deteriorati rapporti con Cina e India, Mosca non avrebbe altri acquirenti all’infuori dei mercati europei?
Anche in questo caso vale il ragionamento della “cooperazione”. La Russia ha un PIL che è simile a quello dell’Italia, quindi intorno a 1,5 mila miliardi di euro. Il PIL dell’Europa (area euro e non euro) è intorno a 15 mila miliardi di euro. Non penso che un’economia come quella russa – peraltro legata alle sole materie prime – possa tenere in scacco un’economia grande dieci volte. La Cina ha un PIL che è un terzo di quello europeo e l’India ancora meno. Insomma, a mio avviso, si esagera il peso dei paesi emergenti sul fronte energetico. Stanno crescendo moltissimo ma economicamente sono ancora piccoli in termini assoluti, figurarsi in termini pro capite. D’altro canto i paesi in via di sviluppo sono “energivori”: ogni punto di PIL in più si traduce in un consumo energetico maggiore rispetto allo stesso rapporto registrabile nei paesi avanzati. Quindi, trascinano la domanda e contribuiscono alla produzione dell’inquinamento globale.
Con l’85% delle importazioni, il nucleare messo nel cassetto, il dibattito sui benefici delle rinnovabili sempre aperto, è possibile ipotizzare che l’Italia continui la sua “non strategia” in campo energetico? Quale sarebbe il prezzo da pagare in termini di autonomia politica nei confronti dei Paesi esportatori? E in termini di credibilità internazionale?
Il ragionamento sull’autonomia e la credibilità internazionale era vero una volta, quando gli stati-nazione si combattevano per il controllo delle materie prime. Oggi non è altrettanto vero; basti pensare alla cooperazione italiana nel nucleare in Francia o alla costruzione di gasdotti transeuropei. Il mondo sembra essere indirizzato verso interessi prosaici più che verso una reale credibilità internazionale.