CRONACA – La sentenza di assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher si è giocata soprattutto sulle prove scientifiche. Quelle che per i pm erano evidenze schiaccianti di colpevolezza, tanto da valere la condanna in primo grado nel 2009 per entrambi gli imputati, 26 anni a lei, 25 a lui, sono state giudicate prove inattendibili per la Corte di assise d’appello. Il verdetto è stato completamente ribaltato per una diversa, e opposta, valutazione dei test del Dna. Come sempre più spesso accade, la “prova delle prove”, anziché rappresentare un inconfutabile elemento del dibattimento giudiziario, diventa oggetto di asprissime battaglie.
Pasticci di laboratorio, errori biostatistici, eccessive aspettative nei confronti della “scienza del crimine” hanno minato la fiducia riposta nella genetica forense da quando, 25 anni fa, il Dna fece il suo ingresso nelle aule di giustizia. La tecnica, paradossalmente, è quasi infallibile nel dare nome e cognome a una traccia, sia essa di saliva, capelli, pelle, sangue, liquido seminale o altro. Tuttavia in molti casi, l’esame, se non supportato da un quadro probatorio, aggiunge alle indagini più dubbi che verità. E nel diritto penale funziona così: si è innocenti finché non si dimostra la colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Nel processo di Perugia, le controversie si sono coagulate, in particolare, intorno a due prove: il Dna della Knox sul coltello ritenuto l’arma del delitto; e il Dna di Sollecito sul gancetto del reggiseno indossato dalla studentessa inglese quando venne uccisa nel suo appartamento nel 2007. Sono state queste prove a inchiodare i due ragazzi. E queste stesse a scagionarli, dopo quasi quattro anni trascorsi in carcere. A determinare la svolta nella sentenza d’appello è stata la perizia firmata da Stefano Conti e Carla Vecchiotti dell’Istituto di medicina legale dell’Università La Sapienza di Roma, che in buona sostanza scredita completamente il lavoro svolto dalla Polizia Scientifica. Non c’è stato un nuovo accertamento genetico. A convincere i giudici a ribaltare la sentenza è bastata l’obiezione che in via della Pergola, secondo quanto riferito dai periti, “non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo e i protocolli di raccolta e campionamento” e “non si può escludere” che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.
Per quanto riguarda il coltello, che venne sequestrato in casa di Sollecito, allora fidanzato della Knox, la Scientifica trovò il Dna di Amanda sul manico e quello di Meredith sulla lama. Un collegamento diretto che sembrava inoppugnabile. Ma secondo la perizia, la quantità di Dna attribuito alla vittima è troppo bassa per fornire un dato certo e per di più non sono state seguite le raccomandazioni della comunità scientifica internazionale sul trattamento dei campioni con un “basso numero di copie”. È certo, invece, che ci sono tracce di Amanda sull’impugnatura. Come pure ci sono tracce di amido. Questo cosa prova? Potrebbe essere, semplicemente, che con quel coltello Amanda abbia affettato del pane a casa dell’amica quand’erano ancora solo due ragazze straniere venute a studiare in Italia. Forse sì. Forse no. Così, Amanda è tornata libera nella sua Seattle.
Sul gancio del reggiseno, la prova regina contro Sollecito, la Scientifica aveva isolato una traccia della vittima (ovviamente, lo indossava) e di Raffaele. Anche questa prova è stata smontata, non solo per varie negligenze nelle indagini (il gancetto fu recuperato nella stanza del delitto 46 giorni dopo il primo rinvenimento). I periti hanno parlato di una “non corretta interpretazione degli elettroferogrammi”. In altre parole, le sequenze del Dna indicano tracce, oltre che di Sollecito, di altri individui di sesso maschile. Inoltre, il gancetto è stato “prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli di origine umana”, che in ambienti chiusi può contenere decine di microgrammi di Dna per grammo”. Ecco che anche la fatidica prova del Dna per Sollecito è risultata inquinata, e quindi smontata. I dubbi non sono stati fugati e la perizia è stata duramente attaccata dal pm, che l’ha giudicata “irrimediabilmente lacunosa”. Tuttavia, una volta respinta la richiesta di effettuare una nuova perizia, la Corte si è espressa. Così è.
Ci si può schierare tra gli innocentisti o i colpevolisti. Il punto forse è un altro: l’importanza e la presunta infallibilità della prova del Dna. Al test si può chiedere di individuare in maniera precisa una corrispondenza. Bastano infatti 13 piccoli segmenti di Dna compatibili con il profilo genetico di un soggetto per avere la certezza che il materiale biologico appartenga a quella persona. C’è una possibilità di uno su un miliardo che 13 pattern corrispondano a due soggetti diversi. Non si può chiedere però molto di più ai test del Dna. Non possono stabilire, per esempio, né quando, né come il Dna è finito laddove è stato rinvenuto. Poi, siccome non viviamo in un ambiente sterile è facile trovare più profili mischiati sullo stesso reperto, complicando ulteriormente la faccenda. Le prove genetiche hanno avuto il merito di contribuito a incastrare molti colpevoli e scagionare altrettanti innocenti ingiustamente incriminati. Forse, però, sono state sopravvalutate. Se non fosse già abbastanza chiaro dai casi di cronaca nera rimasti irrisolti, il Dna non è l’oracolo del terzo millennio. Per dirla con le parole di Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale dell’Università di Bologna: “Rimango convinto che un interrogatorio fatto bene nelle prime 24 ore possa diventare la prova principale a carico di un colpevole. In presenza del dato scientifico si tende a trascurare il resto, si perdono di vista le vecchie tecniche investigative. Il risultato è che spesso i dubbi sulla colpevolezza di un indagato rimangono”.