AMBIENTE – Capita a volte che il dibattito nasca in modo inatteso. È il caso del recente articolo intitolato “Beato te, contadino”, nel quale si descrive un’iniziativa inglese che mira a stimolare l’interesse del pubblico nei confronti dell’agricoltura locale e stagionale.
Anche se né l’articolo né i promotori dell’iniziativa indicano questi due fattori come unici elementi a favore di una produzione eco-compatibile, alcuni lettori hanno messo in discussione la loro efficacia. Perché mai privilegiare dei prodotti stagionali e dalla filiera corta? È un dubbio legittimo, e così ci siamo rivolti a degli esperti.
Lo abbiamo chiesto a Stefano Benedettelli, del Dipartimento delle Scienze delle Produzioni Vegetali del Suolo e dell’Ambiente Agroforestale dell’Università di Firenze, che precisa: “Non è criticabile il concetto della filiera corta a km 0, bisogna solo che ci sia un più efficiente sistema di trasporti e commercializzazione (consorzi di agricoltori che ritirano il prodotto, lo analizzano, lo controllano e poi lo distribuiscono). Inoltre disporre di produzioni ottenute in zona, permette di avere merce fresca e raccolta al momento della maturazione, non prima, fornendo un alimento più ricco di vitamine e qualitativamente migliore”.
È ovvio poi che la produzione locale dovrebbe riguardare prodotti per i quali la zona è vocata, quelli autoctoni, altrimenti si incorrerebbe in un maggiore dispendio energetico. Benedettelli fa l’esempio del cavolo nero in Toscana, aggiungendo: “Ogni zona in ogni stagione ha i suoi prodotti. Il fatto che l’agricoltura locale sia sostenibile dal punto di vista ambientale, dipende da come viene svolta; se l’agricoltore locale usa indiscriminatamente concimi chimici, diserbanti e anticrittogamici in quantità eccessiva… non è molto ecologico, anche se si trova dietro casa. Però essendo della zona è facilmente verificabile, quindi indirettamente è facile controllarlo. Ci mette la faccia, insomma”.
Gli fa eco Cristina Capineri, esperta in metodi di valutazione e misurazione della sostenibilità e dell’ecoefficienza dell’Università di Siena, che evidenzia che alla base di tutto c’è il prodotto, che dovrebbe essere il più possibile biologico. E qui entrano in gioco i costi sociali di un consumo consapevole. “Se ci ammaliamo perché mangiamo male aumentano i costi sociali per cure mediche, ecc.”, ci ricorda. “Il prodotto locale è ritornato in voga anche per la maggiore attenzione nei confronti della qualità del cibo e per mantenere la biodiversità”.
Se poi vogliamo allargare il tema su scala globale, il discorso a volte si complica, come ci spiega Maurizio Guido Paoletti, esperto in biodiversità e sostenibilità del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, ricordando che la questione non è sempre univoca: “Ad un corso internazionale tre studenti provenienti da paesi africani con clima tropicale umido mi spiegarono che per loro la coltura del fagiolino era il trend più sostenibile degli ultimi anni”, ci racconta. “Erano agricoltori poveri (prevalentemente donne) che producevano per grossisti che poi portavano in Francia il prodotto che assicurava alle famiglie un reddito. A me sembrava che distruggere la foresta in nome dei fagiolini non fosse una grande opzione – continua – ma chi in Occidente è pronto a mangiare le colture originali, come il sorgo o i frutti del baobab?”. Privilegiare le coltivazioni locali significa stimolare la produzione autoctona e dare valore di mercato alle varietà produttive altrimenti sacrificabili in nome delle richieste di mercato su vasta scala.
Altro discorso poi per l’incidenza dei chilometri percorsi. Anche se la valutazione dell’impatto ambientale non può ovviamente basarsi solo sul trasporto, avere punti di raccolta che limitano gli spostamenti (soprattutto nelle aree urbane metropolitane), ha ricadute positive in ambito ambientale, sociale ed economico. È solo un pezzo importante del puzzle, quindi ma è piuttosto importante, anche se le variabili in gioco sono molteplici e connesse.
“La sostenibilità dei sistemi di produzione primaria, di trasformazione e di distribuzione degli alimenti riguarda, tra l’altro, la capacità di utilizzare efficientemente e salvaguardare le risorse naturali”, spiega Olimpia Pepe, docente di Microbiologia Agraria all’Università Federico II di Napoli. “Questo si traduce nell’uso di tecniche biologiche che limitano il rischio per la salute umana di agricoltori e consumatori attraverso la riduzione di elementi estranei di origine chimica (ad esempio i fertilizzanti e i pesticidi)”.
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