FUTURO – Il rapporto “Neuroscienze, conflitto e sicurezza“, pubblicato la settimana scorsa dalla Royal Society, è una rassegna delle neurotecnologie sviluppate a scopo clinico e militare, e delle loro applicazioni in guerra e nel “controllo dell’ordine pubblico”.
Si tratta del “terzo modulo” della serie “Brain Wave”. Come i rapporti precedenti (disponibili gratuitamente qui), è scritto in modo semplice e ogni termine tecnico è spiegato con cura, forse perché i dodici esperti scelti dalla Royal Society (nessuno appartenente alle forze armate o di polizia) si rivolgono innanzitutto ai governanti. Identificano le aree i cui progressi promettono “vantaggi” nel reclutare, formare, potenziare e riabilitare il personale militare:
– il neuroimaging per identificare le persone che imparano più velocemente e più disposte a correre rischi;
– il neuroimaging che rivela i marcatori della percezione visiva al di sotto del livello cosciente, da sfruttare per il rilevamento fulmineo di obiettivi da colpire;
– le tecniche di stimolazione che accelerano l’apprendimento di determinati compiti;
– gli psicofarmaci che migliorano la cognizione, le prestazioni intellettuali e fisiche, la resistenza per esempio al sonno;
– gli psicofarmaci terapeutici per curare le turbe da stress post-traumatico;
– le interfacce neurali per il controllo a distanza di “sistemi” e macchine, e anche per la riabilitazione fisica.
Un’ultima categoria riguarda le tecnologie di “potenziamento neurale” non previste da trattati internazionali quali la Convenzione sulle armi chimiche, che rientrano in una zona “grigia” dal punto di vista etico e legale. In ognuna di queste aree, alle tecnologie dalle applicazioni positive, per accrescere le prestazioni dei “nostri”, ne corrispondono di negative, per degradare quelle del nemico.
Il rapporto elenca alcune delle ricerche passate e in corso in USA, Gran Bretagna, Russia e Cina soprattutto. Non ci sono grandi rivelazioni rispetto, per esempio, a quanto si legge nei bandi della DARPA americana. Per quanto riguarda l’ordine pubblico, le “armi ad energia” non letali per assordare, accecare, paralizzare, procurare un dolore intenso – in via temporanea – paiono più promettenti degli psicofarmaci. I gas come quello immesso nel sistema di ventilazione per liberare gli ostaggi del teatro Dubrovka, a Mosca nel 2002, richiedono dosaggi personalizzati, altrimenti fanno vittime indiscriminate. Oltre a questo, hanno il difetto di suscitare le proteste dei difensori dei diritti umani.
In campo bellico, la sezione più inquietante ci sembra quella sulle interfacce neurali (link aggiunto, ndr):
Un’interfaccia come BrainGate potrebbe consentire il controllo del moto a distanza. Elettrodi impiantati nel sistema nervoso di un individuo potrebbero collegarlo a un hardware o software specifico. Siccome il cervello umano elabora le immagini, i bersagli per esempio, molto più velocemente di quanto si renda conto il soggetto, armamenti neuralmente interfacciati fornirebbero vantaggi in termini di velocità e di accuratezza rispetto ad altri metodi di controllo.
“Grazie” a una simile interfaccia, insomma, la mente telecomanda un robot. In pratica, un membro delle forze armate – o di un’azienda come Blackwater, vista la crescente privatizzazione dei “compiti” bellici – potrebbe sganciare le bombe a bordo di un drone prima di essere consapevole del bersaglio che colpiranno. Di pensarci, di poter cambiare idea.
In conclusione, il rapporto invita il governo britannico a considerare i problemi legali posti dai trattati internazionali sugli armamenti, prima di adottare simili applicazioni, e gli scienziati a riflettere sulle implicazioni etiche e i possibili “usi duali” delle proprie ricerche.
E noi invitiamo tutti a cercare di impedire gli usi bellici e repressivi delle neurotecnologie.