AMBIENTE E SALUTE – Siamo disposti a spendere quasi il doppio, come rivela un’indagine di Altroconsumo, per acquistare prodotti da agricoltura biologica. Perché li consideriamo più genuini, più buoni, più rispettosi del pianeta. Quando li portiamo in tavola, ci sentiamo in armonia con la natura. A ben vedere, però, le cose non stanno esattamente così. Biologico non è sinonimo di sostenibile (non sempre, perlomeno) e neppure garanzia di qualità nutrizionali superiori (anche se è proprio questo l’equivoco su cui fanno leva le campagne di marketing).
“I principi tradizionali del biologico si fondano sul rispetto dell’ambiente e la tutela di acque, suolo, animali: è vietato l’uso di fertilizzanti e pesticidi chimici; è favorita la rotazione delle colture che rende il terreno fertile e protegge la biodiversità; è escluso il ricorso ad allevamenti intensivi, come pure ad antibiotici e ormoni”, spiega Mauro Gamboni, responsabile del progetto “Agricoltura sostenibile” del Cnr e presidente della Rete italiana per la ricerca in agricoltura biologica (Rirab). “L’obiettivo è ridurre al minimo l’impronta ecologica, tuttavia non sono previsti vincoli sulla distribuzione e il commercio”.
In altre parole è lecito farsi alcune domande. Come può essere sostenibile, per dire, la frutta esotica che arriva da coltivazioni biologiche del Sud America? Davvero possiamo considerare le verdure bio dei grandi marchi commerciali più green di pomodori, insalata e carote acquistati al mercato rionale? Anche se i calcoli precisi sono complessi, le risposte appaiono quasi scontate. “Il carburante è uno dei fattori che pesa di più nel Life Cycle Assessment, l’analisi ambientale del ciclo di vita di un prodotto”, conferma Gamboni. Il fatto è, come sottolinea un articolo su The Atlantic, che biologico non necessariamente implica locale (cioè prodotto nel raggio di pochi chilometri), stagionale e, per l’appunto, sostenibile. In passato, questi concetti andavano a braccetto fra loro. Con la svolta industriale degli ultimi anni (il mercato è esploso, segnando +11,5% nel 2011 in Italia, nonostante i venti di crisi), il biologico rischia di vendersi l’anima al diavolo e tradire gli ideali d’origine. Lo denuncia anche una recente inchiesta del New York Times che svela il lato oscuro dei pomodori bio, tondi, freschi e rossi che ogni giorno riforniscono i negozi americani: provengono infatti dal deserto del Messico, dove sono coltivati sfruttando la manodopera locale, con metodi d’irrigazione intensiva e devono percorrere migliaia di chilometri a bordo di aerei o camion per giungere a destinazione.
Che in questi casi un problema si ponga lo ammette anche Alessandro Triantafyllidis, presidente dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab). “Certo, se si confronta un prodotto bio e uno da agricoltura convenzionale provenienti dallo stesso posto, il primo risulterebbe comunque più sostenibile”, puntualizza Triantafyllidis. “Sono d’accordo che il paradigma del biologico, che negli ultimi decenni si è affermato come alternativa alla rivoluzione verde basata su metodi intensivi, ora andrebbe esteso anche alla distribuzione, favorendo la filiera corta e locale, i piccoli produttori, i gruppi di acquisto solidale”.
Il punto è proprio questo: allo stato attuale, il biologico non è sostenibile su larga scala, anche se l’industria alimentare è ormai scesa in campo. “Ha una resa inferiore del 20-30%, per cui a parità di raccolto richiede un uso della terra maggiore”, specifica Gamboni. “Ma la ricerca scientifica sta studiando come aumentare l’efficienza ai livelli del convenzionale”. Non si tratta di demonizzare il biologico, che ha molti meriti. Chiunque abbia a cuore gli animali dovrebbe scegliere carne, latte e formaggi d’origine biologica. Ed è apprezzabile il rispetto verso la natura dei piccoli agricoltori. Il problema è strumentalizzare un’etichetta, facendo credere ai consumatori che il biologico sia “migliore” tout-court, alimentando una serie di falsi miti (illuminante questa lettura su Scientific American).
È vero, per esempio, che pesticidi, fertilizzanti e insetticidi chimici, utilizzati nell’agricoltura convenzionale, costituiscono una minaccia per l’ambiente. Tuttavia, non è altrettanto vero il contrario, che i metodi naturali (microorganismi e insetti antagonisti, sostanze non di sintesi) siano buoni a prescindere. Alcuni pesticidi organici, come il rotenone derivato dalle radici di piante leguminose, si sono rivelati tossici per la salute e sono stati messi al bando in Europa. Il rame presenta problemi perché si accumula nel terreno, le piretrine uccidono anche le api, oltre agli insetti infestanti.
Non è vero – poi – che il cibo bio è più ricco di nutrienti, come vitamina C, antiossidanti e minerali. Secondo alcune ricerche sì, ma altre hanno dato risultati di segno opposto. Alla fine, la più vasta revisione sistematica degli studi pubblicata sull’American Journal of Clinical Nutrition ha concluso che mancano evidenze per stabilire questa presunta superiorità nutrizionale. “Il contenuto di antiossidanti e micronutrienti nell’ortofrutta dipende da numerosi fattori: varietà, freschezza, latitudine, condizioni climatiche; questi elementi influiscono più del metodo di coltivazione”, dice Flavio Paoletti, ricercatore dell’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti (Inran). “Fa eccezione il latte biologico, che è naturalmente più ricco di acidi grassi omega tre. Un vantaggio probabilmente legato al pascolo delle mucche, che si nutrono di erba e non di mangimi”.
Largamente esagerata appare anche la preoccupazione sui residui dei pesticidi chimici. L’Efsa, l’organo europeo sulla sicurezza alimentare, stabilisce il limite massimo di residui riscontrabili negli alimenti. Un limite precauzionale, ben inferiore al livello tossicologico accettabile. “Da questo punto di vista”, assicura Paoletti, “l’agricoltura tradizionale è sicura e, tendenzialmente, basta sciacquare la frutta e la verdura per eliminare anche quel poco di residuo chimico rimasto sulla superficie”. Insomma, per il biologico, come per il convenzionale, non tutto è bianco o nero. Anche se spesso ce lo vendono così.
Crediti immagini: Dennis Mojado