Intervista a Piero Angela e Carlo Alberto Pinelli
JEKYLL – Cominciano le note dell’aria sulla quarta corda di Bach, appare la parola Quark e subito dopo il volto di Piero Angela. Per molti italiani è questa la sequenza di immagini e suoni che vengono alla mente quando si parla di divulgazione scientifica. Da quando, agli inizi degli anni Ottanta, il programma di Piero Angela, giornalista, divulgatore scientifico e scrittore, ha cominciato a essere una presenza familiare nelle nostre case, molte cose sono cambiate nel mondo della comunicazione scientifica. Così come sono cambiati i codici linguistici, i tempi e i modi di accesso alle informazioni. Possiamo quindi immaginare che anche i documentari scientifici, punta di diamante della trasmissione Quark, abbiano subito un’evoluzione. Oggi chiunque può prendere una telecamera e caricare su internet un prodotto “fatto in casa”: l’accesso alle informazioni è decisamente più facile e, in generale, siamo abituati a una fruizione della conoscenza “mordi e fuggi”. Ma allora, in questo nuovo contesto, qual è il posto occupato dal classico documentario a cui ci ha abituato Quark? Quali caratteristiche deve avere oggi un documentario scientifico per mantenere la sua posizione nel mondo della divulgazione?
Un buon documentario deve «catturare e mantenere l’attenzione», dice Piero Angela. «Quello che conta è riuscire a far passare dei concetti e per imparare qualcosa abbiamo bisogno di focalizzare l’attenzione, di concentrarci. Questo vuol dire che, nel nostro cervello, la parte del sistema limbico che riguarda le emozioni deve essere attivata perché è da lì che partono le sostanze chimiche che favoriscono la memorizzazione». La spiegazione può sembrare un po’ tecnica ma il concetto è semplice: per ottenere un buon prodotto di comunicazione «non basta essere chiari, bisogna essere attraenti, emotivi e avvincenti». Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto considerando che stiamo parlando di scienza. «Se la stampa quotidiana punta molto sulle emozioni forti come violenza, sesso, soldi, scandali e speranze», prosegue Angela, «per la scienza è più complesso». Ma l’idea alla base è sempre la stessa: «Bisogna mantenere alto l’interesse con un racconto. Un po’ come un film con una trama articolata che permetta di mantenere vivo il livello di attenzione». E, così come nel caso del cinema spesso è il regista a fare la differenza, nel mondo dei documentari scientifici molto «dipende dalla creatività di chi scrive, di chi compone il video».
A questo proposito è interessante sapere cosa ne pensa una delle voci più autorevoli del documentarismo scientifico italiano: Carlo Alberto Pinelli. Regista con alle spalle più di centoventi documentari che spaziano in vari ambiti della scienza, Pinelli ha lavorato per la Rai, per Europe 1, per la FAO, per il Ministero degli Affari Esteri e per emittenti private italiane e straniere realizzando prodotti girati in tutto il mondo, soprattutto in Africa e Pakistan. Tra le sue collaborazioni più importanti quella con Folco Quilici per produzioni come La scoperta dell’India, Islam, L’alba dell’uomo. La sua formula più efficace? La metafora. «Quando si parla di molecole o di mitocondri non è che li puoi far vedere», spiega Pinelli. «La mia specialità è sempre stata quella di trovare delle metafore che, pur essendo dichiaratamente tali, facessero capire emotivamente al pubblico le cose invisibili». Quello che intende Pinelli quando parla di metafore si può capire meglio guardando i suoi documentari. Un esempio è Dermosfera, un lungometraggio realizzato negli anni Ottanta sul tema della pelle: in questo caso, per illustrare la proprietà di permeabilità selettiva dell’epidermide, il regista la rappresenta come il muro di un monastero tibetano che separa lo spazio esterno, laico e caotico, da quello interno, religioso e regolamentato. O ancora nel documentario Ergo sum, dedicato al cervello, Pinelli immagina i neuroni cerebrali come un’intricata porzione di foresta amazzonica in cui è difficile quantificare il numero di alberi e in cui ogni ramo rappresenta una sinapsi, una connessione. Per realizzare questi lungometraggi «ho studiato proprio come se si fosse trattato di una serie di esami di medicina e di fisiologia» racconta Pinelli. Tempo? Due anni, di cui «uno impiegato per imparare». Due anni per realizzare un documentario di circa un’ora. È ancora possibile oggi immaginare tempistiche del genere? Esempi come Microcosmos, documentario sugli insetti, o Profondo blu, con le sue esplorazioni del mondo marino, ci lasciano pensare che ci sia ancora spazio per questo tipo di imprese. Sicuramente però la maggior parte dell’informazione che consumiamo oggi viaggia a velocità ben diverse e la principale conseguenza può essere, in certi casi, la frammentazione dell’informazione stessa.
«Questa parcellizzazione del sapere», dice Piero Angela, «finisce per somigliare un po’ alle curiosità della settimana enigmistica, la pagina del “Sapevate che”, ma non costruisce un percorso di conoscenza. Quello che avviene oggi su youtube è che non si ha più un vero approfondimento su qualcosa: si prende a spizzichi e bocconi quello che c’è in giro». Secondo Angela, i vari pezzi di informazione possono essere pensati come mattoni: utili se, grazie alla tua preparazione, sai come usarli per costruirci qualcosa, altrimenti è solo un flusso di notizie che si perde. «È un po’ come la differenza tra leggere un libro intero o limitarsi all’indice o al risvolto di copertina».
Anche per Carlo Alberto Pinelli molti dei prodotti che si trovano in rete oggi non possono essere considerati veri documentari ma sono più vicini al reportage. Ma allora qual è la definizione di documentario? Per Pinelli, che insegna Cinematografia documentaria all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, la definizione non è facile: «secondo Jean Vigo – considerato uno dei padri della cinematografia francese – un documentario non è una presentazione di documenti, è un punto di vista documentato. È un reportage con l’anima di ciò che non è immediatamente visibile, di quello che sta dietro ai fatti, e ha sempre un’ambizione autoriale, stilistica».
Per creare un documentario servono quindi tempo, mezzi e risorse intellettuali. Quella del documentarista, in particolare in Italia, è ancora una professione possibile? C’è mercato per questi prodotti? «Il bello di questi documentari», racconta Pinelli ricordando la realizzazione di uno dei suoi lavori, «era che se l’idea era buona, c’erano i soldi per farli. Oggi non c’è disponibilità economica per i documentari, di nessun genere».
Piero Angela è più moderato riguardo alle possibilità: ci sono ma molto dipende da quello che si vuol fare. «Fare documentari è costoso», ammette Angela. «Si possono anche fare cose con la propria piccola telecamera, facendo un viaggio in una particolare realtà, ma generalmente questi sono prodotti destinati a un pubblico piccolo, di nicchia». Quando si parla di grandi produzioni, infatti, l’entità delle risorse messe in campo dipende dalla domanda del pubblico e dalle previsioni di ascolto. «Non è tanto il mercato il problema», dice Piero Angela concentrandosi sulle logiche che agiscono quando si parla di documentari in televisione. «La domanda vera che decide le sorti di un progetto è: che ascolto farà?».
E dunque cos’è che attrae oggi l’ascolto del pubblico? Quali scienze interessano di più? Secondo Pinelli, continuano a essere i temi della medicina e della salute ad attirare maggiormente l’interesse del pubblico. Ma va tenuto conto che, a differenza di quanto avveniva una volta, il documentario, completamente schiacciato dall’immensa offerta messa a disposizione da internet, ha cambiato veste e non viene più messo tra le principali fonti di informazione.