POLITICA – Quattro anni a tutti. È questa la richiesta dei pubblici ministeri Fabio Picuti e Roberta d’Avolio alla fine della requisitoria che si è svolta tra lunedì 24 e martedì 25 settembre, durata oltre 15 ore in un’affollata aula del Tribunale de L’Aquila. Sindaco e autorità locali assenti. Il processo è ripreso dopo la pausa estiva e i lunghi mesi precedenti in cui sono state raccolte le testimonianze dei parenti delle vittime, dei tecnici, degli scienziati, di tutte le persone coinvolte, e della documentazione necessaria. Mettiamo qui a disposizione tutte le 509 pagine della requisitoria.
La storia l’abbiamo raccontata su OggiScienza (Processo ai sismologi, Terremoto dell’Aquila: sette a processo per omicidio colposo), e si può anche approfondire leggendo l’articolo Da un’aula di Tribunale agli ultimi terremoti padani di Alessandro Amato, attuale direttore del Centro nazionale terremoti dell’INGV (Istituto Nazionale di geofisica e Vulcanologia) pubblicato su Scienza in Rete il 2 marzo 2012. In sostanza la storia riguarda il processo a sette dei partecipanti alla riunione della Commissione Grandi Rischi riunitasi il 31 marzo 2009 pochi giorni prima del terremoto del 6 aprile nel quale morirono 309 persone. Gli accusati sono Franco Barberi, presidente vicario della Commissione Grandi rischi, Bernardo De Bernardinis, vicecapo del settore tecnico del Dipartimento di Protezione civile, Enzo Boschi, allora presidente dell’INGV, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del progetto CASE, Claudio Eva, ordinario di fisica all’Università di Genova (tutti componenti della Commissione Grandi Rischi) e inoltre Mauro Dolce, direttore dell’ufficio rischio sismico del Dipartimento della Protezione civile e Giulio Selvaggi, allora direttore del Centro nazionale terremoti dell’INGV. Devono rispondere di omicidio colposo e lesioni colpose, perché con il loro comportamento superficiale e con le dichiarazioni rassicuranti avrebbero indotto molti aquilani a rimanere in casa invece che a passare la notte in un luogo più sicuro.
Le richieste dei pubblici ministeri sono una fase importante del processo, e dalla requisitoria ci si sarebbe aspettato qualcosa in più, soprattutto in quanto i pubblici ministeri, raccogliendo la volontà dei parenti delle vittime, si proponevano di andare a fondo, di mettere in luce le vere responsabilità e distinguere i diversi ruoli degli accusati. Soprattutto ci si sarebbe aspettato qualcosa di meglio e di più utile, affinché questa storia drammatica possa diventare il segno di una trasformazione, di un cambiamento nel modo di affrontare queste tragedie in Italia. Con maggiore senso di responsabilità, rispetto dei ruoli, e meno superficialità e presunzione.
Quattro anni, infatti, sono pochi se risultasse effettivamente dimostrato il nesso di causalità, sul quale si basa l’accusa, tra le parole rassicuranti di alcuni membri della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo e il comportamento dei cittadini che, malgrado le scosse, sono rimasti in casa, non hanno cercato un rifugio sicuro e per questo sono morti. In questo caso quattro anni sono pochi e non farebbero giustizia.
Sono invece troppi per coloro che queste parole rassicuranti non hanno pronunciato e anzi hanno portato dati e testimonianze che indicavano che un terremoto può verificarsi sia nel corso di uno sciame sismico che indipendentemente da uno sciame sismico (come quello che era in atto a L’Aquila nelle settimane antecedenti l’evento della notte del 6 aprile o come quello che da due anni sta interessando la regione del Pollino) e che comunque è impossibile prevederlo, che nell’impossibilità di una previsione in presenza di uno sciame sismico non bisogna sottovalutare il rischio, e che comunque in un territorio sismico come quello dell’Appennino abruzzese un forte terremoto può verificarsi in qualunque momento. Queste conoscenze, oltre a essere state espresse nella riunione del 31 marzo 2009, sono dati pubblici e noti non solo agli addetti ai lavori e sono riassunti nella mappa di pericolosità che è una legge dello Stato e dalla quale non si può prescindere. Vero è, purtroppo, che la Commissione Grandi Rischi era stata convocata per volere di Guido Bertolaso, allora direttore del Dipartimento della Protezione Civile, con il chiaro intento di rassicurare e si svolse effettivamente in modo frettoloso e superficiale. Vero è anche che alcuni dei membri della Commissione, tra cui De Bernardinis che la presiedeva, avevano preventivamente organizzato una conferenza stampa nella quale diedero un messaggio chiaramente rassicurante, sostenuto, fra l’altro, anche dal sindaco Massimo Cialente e da Daniela Stati, responsabile della Protezione Civile della regione Abruzzo.
E allora che senso ha chiedere quattro anni per tutti indiscriminatamente?
Il processo è cominciato il 20 settembre 2011, dopo che nell’agosto 2010 i parenti di 36 delle vittime avanzarono una richiesta di risarcimento danni alla Presidenza del Consiglio e nel maggio 2011 il Tribunale de L’Aquila decise il rinvio a giudizio per i sette oggi imputati. Per sette delle 36 vittime e per il ferimento di un’ottava gli imputati sono stati assolti non essendo stato possibile dimostrare il nesso di causa ed effetto tra le dichiarazioni della Commissione Grandi Rischi e il loro comportamento.
Dopo le richieste di condanna, sono cominciate le arringhe degli avvocati di parte civile, mentre il 9 e il 10 ottobre sarà la volta degli avvocati difensori. Poi le eventuali repliche dei pubblici ministeri, e infine la sentenza del giudice Marco Billi attesa per il 23 ottobre.
Indipendentemente da quale sarà effettivamente la sentenza, questa vicenda apre una serie di questioni che è importante approfondire e che per noi che ci occupiamo di scienza deve innescare un processo di riflessione sul ruolo della scienza e dello scienziato nella società e la sua resposabilità nei confronti di fenomeni che hanno un forte impatto sulla vita delle persone. Non basta mettere a disposizione i dati, nudi e crudi e presuntamente neutrali. È necessario dare un messaggio chiaro, comprensibile, univoco, onesto e veritiero. È necessario esporsi ai cittadini e rendersi disponibili a un vero confronto. Si tratta, in fin dei conti, di non delegare le responsabilità ad altri. La scienza e gli scienziati, individualmente e come rappresentanti di un’istituzione, non devono trincerarsi dietro un dignitoso silenzio.
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