CRONACA – Sono circa un migliaio gli esopianeti già scoperti con strumentazioni dedicate, come il satellite Kepler della Nasa, e altri 2.700 sono in attesa di conferma. Per molti anni gli esopianeti sono stati solo ipotizzati mentre ora abbiamo conferma della loro esistenza; se però esistano forme di vita, su questi o altri pianeti ancora da scoprire al di fuori del Sistema Solare, non siamo ovviamente ancora in grado di affermarlo. Ciò che possiamo fare è cercare di scoprire se alcuni di questi pianeti potrebbero essere abitabili.
È con questo intento che un gruppo formato da ricercatori dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Trieste e dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Cnr di Torino ha elaborato un modello climatico capace di determinare l’abitabilità degli esopianeti: il primo studio del gruppo è stato recentemente pubblicato su Astrophysical Journal.
L’abitabilità è un concetto complesso che dipende da numerose caratteristiche, tra cui la presenza di acqua allo stato liquido, la pressione atmosferica, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, l’eccentricità dell’orbita, inclinazione dell’asse di rotazione e il periodo di rotazione. Ma “nonostante le caratteristiche utili affinché un pianeta possa essere definito abitabile siano molte – spiega Giovanni Vladilo – in genere, per semplificare la ricerca, ci si limita al criterio di acqua allo stato liquido. In linea teorica, per osservare la presenza di acqua, si possono studiare le atmosfere dei pianeti, prendendone uno spettro e cercando tracce di vapore acqueo, cosa che però comporta numerosissime difficoltà tecniche e a oggi possiamo farlo solamente per pianeti giganti, che, in generale, pensiamo non siano potenzialmente abitabili.”
“ Anche la temperatura superficiale di un pianeta – prosegue Vladilo – potrebbe essere teoricamente osservabile, ma anche in questo caso non è affatto semplice ottenere dati concreti. Dunque, in questo momento, non abbiamo evidenze dirette che ci possano aiutare a scoprire se un pianeta può ospitare vita”. Ecco perché il team di ricercatori ha sviluppato un modello climatico ad hoc, chiamato “ a bilancio di energia”, che, modificando temperatura e pressione, è in grado di stimare ciò che accade al mutare delle variabili. “Abbiamo preso il modello a bilancio di energia che viene usato per gli studi sul clima terrestre, che richiede pochissimi minuti di calcolo ed è molto flessibile, e lo abbiamo integrato servendoci di modelli climatici più sofisticati, ma al tempo stesso più lenti. Quello che abbiamo ottenuto è un ottimo sistema, ben più di un semplice giochino” ha precisato Vladilo.
Dal punto di vista pratico il modello ha molte applicazioni. “I risultati di questo primo lavoro – afferma Antonello Provenzale, ricercatore dell’Isac-Cnr e coautore dello studio – hanno mostrato che la pressione atmosferica gioca un ruolo assai importante nel determinare tali condizioni, a causa del suo legame con circolazione atmosferica e distribuzione delle temperature. La zona abitabile si allarga con l’aumentare della pressione e, inoltre, a pressioni elevate la temperatura superficiale del pianeta tende a diventare uniforme, livellando differenze stagionali e latitudinali”.
Dunque, perché un pianeta sia abitabile, ci devono essere le giuste condizioni di temperatura e pressione. All’alta pressione i ricercatori hanno visto associarsi la presenza di una temperatura molto omogenea in tutto il pianeta, cosa che indicherebbe potenzialmente una minore biodiversità. Altro dato importante, scoperto grazie al modello, è che quando aumentiamo la pressione e vogliamo che però le temperature non diventino estreme, per essere abitabile un pianeta deve essere più lontano dalla sua stella. “Questi modelli, oltre a indagare le condizioni dei pianeti più distanti – conclude Provenzale – possono essere utilizzati per capire meglio le condizioni della Terra primitiva di 4 miliardi di anni or sono, quando il nostro Sole era ancora giovane e la sua luminosità era circa il 30 per cento inferiore a quella attuale”.
Crediti immagine 1: Nasa
Crediti immagine 2: Inaf