di Michele Bellone, Valentina Daelli, Francesca Gatti e Davide Mancino
JEKYLL – I cospirazionismi scientifici sono come il gioco della patata bollente. Per chi ci crede è colpa della scienza e del potere, che in questo caso coincidono. Per i giornalisti è spesso colpa degli scienziati che non vogliono scendere dalla torre d’avorio né sanno spiegarsi. E per gli scienziati è colpa di tutti gli ignoranti che parlano di cose che non conoscono. Un rimpallo infinito di responsabilità.
Maggie Koerth-Baker sul New York Times si è interrogata di recente sul perché, in un un’era in cui “l’accesso all’informazione è molto migliorato”, questo tipo di fenomeni sia tutt’altro che scomparso, anzi. Sembra addirittura che con il tempo “stiano diventando sempre più convincenti”.
Quel che è certo è che i rapporti fra scienziati, pubblico e giornalisti sono complicati. Abbiamo chiesto in proposito l’opinione di Connie St. Louis, direttrice del Master of Arts in Science Journalism alla City University di Londra. Parte scienziato sociale, parte cronista, St. Louis collabora con la BBC oltre a scrivere per Guardian, Indipendent, Daily Mail e Sunday Times.
Secondo le ricerche riportate da Koerth-Baker, le teorie del complotto costituiscono un vero e proprio modo complessivo di guardare al mondo. Nella sua esperienza, che impatto possono avere queste teorie sulla comunicazione scientifica?
Penso sia un’ipotesi molto interessante. In America ci sono miriadi di teorie del complotto. Alcune più sensate, altre meno. Come giornalista scientifico, devo prendere atto che esistono queste teorie cospirazioniste anche nella scienza, ma devo badare soprattutto ai fatti. Non sono interessata ai gossip. Alla base del giornalismo sta la ricerca dei fatti, e quando hai i tuoi fatti puoi dimostrare se una teoria cospirazionista è vera o falsa.
Esiste un meccanismo chiamato backfire effect, secondo cui tanto maggiore è l’impegno per convincere qualcuno che le teorie cospirazioniste sono irrazionali, tanto più quella persona tenderà a crederci. Succede lo stesso anche per le teorie del complotto nella scienza?
È senz’altro così nel dibattito sul legame fra vaccini e autismo. Ancora oggi ci sono forse centinaia di migliaia di persone che credono nell’esistenza di questo legame, nonostante tutte le prove contrarie. Molte di queste hanno bisogno di crederci, per diverse ragioni, e questo è insito nelle dinamiche del complottismo. Se cioè credi che ci sia qualcuno contro di te, allora trovarlo davvero non fa che gettare benzina sul fuoco della teoria cospirazionista.
Un altro dei caratteri interessanti di queste teorie è che alcune possono essere parzialmente fondate su basi razionali. Inoltre, la rete consente loro di diffondersi molto più facilmente. Come si pone un giornalista scientifico in questo contesto?
Anche nella questione del riscaldamento globale c’è stato chi ha sostenuto che la teoria era difettosa e che questo, in qualche modo, invalidava la scienza nel suo complesso. Una cosa che non si può fare, ovviamente. Ma l’esperienza insegna che le persone riusciranno sempre a trovare quello che vogliono trovare. Questo rende il giornalismo ancora più importante, perché aiuta le persone a rendere sensate le informazioni scientifiche che ricevono, a comprendere rischi e controversie anche quando poggiano su elementi razionali.
Ritiene che questo sia un fenomeno sottovalutato da scienziati e giornalisti?
Direi di sì. Nessuno prestò particolare attenzione al lavoro di Wakefield su autismo e vaccini, quando uscì. Il giornalismo scientifico non riuscì a chiarire la questione e servì un cronista con grandi capacità investigative come Brian Deer per capire che dietro c’era una storia. Gli specialisti furono invece più lenti e giudicarono molto male la forza di ciò che stava per accadere.
E nelle controversie sul cambiamento climatico come il Climategate?
All’epoca, parlando con i giornalisti scientifici ho sentito spesso dire: “Il problema è stato che gli scienziati non sono venuti ad aiutarci”. Ma quello non è il loro lavoro. Il problema fu che i giornalisti non riuscirono a inserire la storia nel giusto contesto, né a renderla sensata per il pubblico. Non lo aiutarono a formulare i propri giudizi, né a valutare quanto fossero davvero robuste le ricerche. Inoltre, venne sottovalutata la forza degli scettici, che fecero scoppiare lo scandalo appena prima di una grande conferenza internazionale. Fu senza dubbio un errore.
Come rimediare, allora?
Penso sia importante, come giornalisti scientifici, prestare attenzione a quello che succede dietro le quinte. Alle basi di una ricerca. Che statistica è stata usata? Chi ha fatto la peer-review? Chi ci ha guadagnato? Spesso gli scienziati hanno conflitti di interessi con la ricerca che fanno. Queste cose dovrebbero essere dichiarate dagli scienziati e rese evidenti dai giornalisti. Penso che non dovrei essere solo un’amica della scienza, ma un’amica critica.
Guarda un estratto dell’intervista a Connie St. Louis