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Il senso del trial per le staminali

1280px-Bone_marrow_biopsySALUTE – In un settore di ricerca al momento molto appealing, fatto di belle speranze, frustrazioni, illusioni, e qualche vittoria, sembra che questa volta sia stato ottenuto un buon risultato.

Si tratta del recentemente annunciato studio clinico di fase I con cellule staminali neurali (o cerebrali) trapiantate in pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), che – a un terzo della sperimentazione – non mostra problemi di tossicità.

Lo studio è coordinato da Angelo Vescovi, docente di Biologia Applicata presso l’Università Bicocca di Milano e Direttore scientifico di Neurothon onlus, che da anni studia le cellule staminali cerebrali, Letizia Mazzini (Neurologo, Responsabile del Centro Regionale Esperto SLA di Novara) e Gianni Sorarù (Neurologo, Responsabile Ambulatorio Malattie del Motoneuroni di Padova). Lo studio clinico in questione è un test di fase I, il cui unico scopo è quello di valutare la tossicità della terapia con cellule staminali, e disegnato in modo da non permettere di trarre conclusioni definitive sulla sua efficacia. Lo studio è stato autorizzato dall’Istituto Superiore di Sanità e promosso dall’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni.

Per capire meglio in cosa consiste questo intervento con cellule staminali e come funziona il trial abbiamo intervistato Stefano Pluchino, ricercatore presso il John van Geest Centre for Brain Repair e lo Stem Cell Institute dell’Università di Cambridge, UK.

Qual è la caratteristica che rende nuovo questo studio?

Si tratta del primo studio italiano con cellule staminali cerebrali adulte in una malattia neurologica. Le cellule in questione sono state derivate dal cervello di un unico feto proveniente da interruzioni terapeutiche di gravidanza. Le cellule staminali derivate pertanto da un unico donatore allogenico saranno infuse nei diversi pazienti reclutati per questo studio. Per la comunità scientifica si tratta tuttavia di una novità relativa, poiché al mondo sono già in corso alcuni studi clinici di fase I con cellule staminali neurali (fonte clinicaltrials.gov), di cui uno solamente in pazienti affetti da SLA, mentre i rimanenti in altre malattie neurologiche. Di sicuro si tratta di una sperimentazione innovativa perché lo studio è italiano e sponsorizzato essenzialmente dall’Accademia, con la presenza di Neurothon che però è una onlus. Inoltre si sta testando un prodotto di terapia cellulare sviluppato e cresciuto in condizioni certificate e potenzialmente valido per altre patologie.

Perché vengono utilizzate le cellule cerebrali/neurali?

La scelta è dovuta alla competenza di Vescovi su questa tipo di cellule e ovviamente ai solidi dati preclinici su modelli di malattie neurologiche che comprendono i traumi spinali, le ischemie/emorragie cerebrali, la sclerosi multipla e le malattie neurometaboliche. Questi studi hanno mostrano una sorprendente adattabilità funzionale delle cellule staminali neurali, e rivelato che questo tipo di cellule riesce a essere terapeuticamente efficace grazie a una serie di meccanismi che prevedono la integrazione funzionale nel sistema nervoso dell’ospite, il rilascio di molecole ad azione trofica, e la modulazione delle risposte immunitarie. Inoltre, questo studio segue due precedenti test clinici di fase I sempre su pazienti affetti da SLA – eseguiti tra il 2003 e il 2010 – che Letizia Mazzini ha completato grazie al supporto di Ministero della Salute in cui erano state utilizzate cellule staminali stromali/mesenchimali autologhe derivate da midollo osseo dei pazienti.

Il trial con le mesenchimali è andato a buon fine?

Lo studio delle cellule staminali mesenchimali non ha mostrato problemi di tossicità. A oggi però non c’è modo di sapere se il trattamento con queste cellule sia efficace sia per tipologia, sia numero, sia per tipo di osservazioni. Non c’è modo di arrivare a capire qualcosa sull’efficacia del trapianto.

Come sono scelti i pazienti per i trial con le cellule staminali neurali?

Si tratta di pazienti tra i 30 e i 68 anni con un alto grado di disabilità, non deambulanti, che hanno problemi respiratori, ma senza altre patologie associate. Per i trial di fase I bisogna reclutare pazienti non candidabili per altre terapie. Questi pazienti saranno stati sottoposti a osservazione per 3 mesi prima del trattamento e verranno seguiti per 36 mesi dopo il trattamento (maggiori informazioni qui).

In base a quali caratteristiche si sceglie il numero di pazienti?

Il numero di tutti questi trial clinici di fase I varia da 6 pazienti a un massimo di 18. Gli studi di fase I non possono considerare più pazienti, ed è anche per questo che non si possono fare considerazioni sull’efficacia del trattamento. Nella fase II invece il numero di pazienti aumenta per poter incrementare il potere statistico dello studio, e di conseguenza la identificazione di misure di osservazione che permettano di valutare l’assoluta efficacia del trattamento. Ossia, per far sì che le differenze osservate tra gruppo di trattati e gruppo di controllo soddisfi i test statistici e per capire se le osservazioni collezionate rappresentino delle vere differenze oppure dei falsi postivi, come si dice in gergo.

Come si esegue il trapianto?

Come detto, il materiale trapiantato proviene da un unico feto donatore, quindi un unico tessuto cerebrale fetale. Le cellule derivate sono coltivate in laboratorio per mesi, in condizioni standardizzate e certificate, che sono definite good manufacturing practice (GMP). Presso laboratori certificati. Le cellule possono essere congelate/scongelate e formano una banca pronta all’uso. Al momento dell’inclusione dei pazienti nello studio, la dose da iniettare viene scongelata, coltivata per due settimane, e infine infusa in multiple aree del midollo spinale lombare con l’ausilio di rigorose procedure microchirurgiche intraoperatorie.

Come si fa a sapere dove vanno le cellule?

Queste tecniche di microchirurgia sono state standardizzate, dopo essere state messe a punto da Nicholas Boulis, e già utilizzate in trial precedente ad Atlanta. Vescovi e Mazzini hanno quindi importato una tecnica di microchirurgica già collaudata, che rispetto allo studio precedente risulta più sofisticata. Non esiste tutta via ad oggi alcun modo per visualizzare (ad esempio tramite risonanza magnetica oppure altre tecniche di imaging) con assoluta specificità le cellule iniettate. A oggi sono stati trattati un totale di sei pazienti: 3 con inoculazione unilaterale e 3 con iniezione bilaterale.

Cosa significa iniezione unilaterale e bilaterale?

Immagini il midollo come un tubo, lo divida in due sezioni e mentre nel primo caso l’iniezione avviene solo da un lato di questo tubo, nel secondo caso viene eseguita da entrambi i lati. In particolare per i primi tre pazienti sono state fatte tre iniezioni da un solo lato, per un totale di 2 milioni e mezzo di cellule; mentre per i successivi tre pazienti le iniezioni sono state sei, tre per lato, per un totale di 5 milioni di cellule infuse.

Le cellule staminali cosa fanno dal punto di vista terapeutico?

Le aspettative della comunità scientifica sulle cellule staminali sono cambiate negli ultimi 15 anni. A partire dalla loro scoperta si iniziò a pensare che si potessero trapiantare queste cellule per  ricostruire ciò che era stato danneggiato in modo diretto, sia per la cura della SLA sia per altre malattie invalidanti di tipo neurologico. Studiando queste cellule la comunità scientifica ha modificato alcune considerazioni: le cellule tal quali non si integrano nella maggior parte dei casi, ma rilasciano alcune sostanze ad azione terapeutica che proteggono il cervello e il sistema nervoso dalla degenerazione. Le cellule staminali quindi riescono a rilasciare, in vivo e dopo il trapianto, una serie di fattori protettivi come alcune molecole ad azione trofica, in grado quindi di nutrire le cellule danneggiate, e fattori di protezione che favoriscono un recupero delle attività cerebrali. Questo rilascio si chiama “delivery”.

Il concetto di differenziamento si è quindi un po’ perso?

In questo caso le cellule non si differenziano in nulla. I dati su animali da laboratorio hanno dimostrato che la possibilità del differenziamento va considerata caso per caso ed è specifica in relazione alla patologia e alla sede di trapianto delle cellule.  Come abbiamo detto, inizialmente si pensava di riuscire a crescere in laboratorio cellule indifferenziate che trapiantate avrebbero dato origine ad altre cellule. Invece queste aspettative si sono in parte ridimensionate e ora sappiamo che queste cellule potrebbero essere utili perché rilasciano molecole protettive nel midollo spinale e non perché sostituiscono tessuti danneggiate. Continuano a rimanere valide le aspettative e gli approcci “integrativi” in malattie come la malattia di Parkinson, le ischemie cerebrali croniche, e la malattia di Huntington, in cui è ampiamente dimostrata la correlazione tra cellule integrate e il recupero funzionale del paziente. Per la SLA inoltre si parla di un caso particolare e questo studio, insieme alla preclinica, sicuramente aiuterà anche a capire di più della malattia.

Cosa viene colpito nei pazienti con la SLA?

Questa patologia generalmente comincia dalla corteccia motoria, nei casi più classici, oppure coinvolge il secondo motoneurone nei capi più particolari. Le prime cellule a morire sono il primo e il secondo motoneurone, che hanno un corpo molto lungo, anche decine di centimetri. Per questo è bene capire che trapiantare cellule nel tratto lombare del midollo spinale non ha alcun collegamento con il concetto di rigenerazione classicamente intesa. Potrebbe rivelarsi però un promettente approccio per favorire la plasticità e il rimodellamento del microambiente malato, tramite l’apporto in loco delle molecole protettive che le staminali rilasciano dopo trapianto.

La SLA colpisce quindi i motoneuroni…

La SLA comincia a livello di corteccia motoria. I neuroni motori, i primi a essere colpiti, risiedono nella corteccia e mandano assoni che scorrono per tutto il midollo spinale e terminano creando sinapsi con le cellule muscolari. Attualmente non si conosce ancora la causa della SLA, a eccezione delle forme familiari che hanno una componente genetica, come nel caso della mutazione nel gene per l’enzima superossido dismutasi. Si tratta di una malattia orfana, per la quale qualsiasi cura al momento ha fallito. Alcuni dati preclinici ci dicono che il neurone muore o per problemi neuronali o per problemi che insorgono nelle cellule vicine, gli astrociti. Le staminali potrebbero cambiare la biologia dell’astrocita e quindi avrebbe senso utilizzare queste cellule per cambiare il modo con cui l’astrocita fa morire il neurone. Tutto ciò però è ancora da dimostrare.

Quali aspettative dà questo trial di Vescovi?

Le aspettative che secondo me dobbiamo avere da uno studio del genere risiedono nel metodo e nella determinazione della tossicità. Il rigore con il quale viene effettuata la sperimentazione: questo è il messaggio. Questa piattaforma potrà essere estesa ad altre patologie oppure servire da base per uno studio più sofisticato sull’efficacia. Per ora siamo a un terzo del reclutamento: è importante vedere come evolverà il trial.

Crediti immagine: Chad McNeeley, Wikimedia Commons

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