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Fukushima, tre anni dopo

600px-Fukushima_I_NPP_1975SPECIALE MARZO – Quasi 20.000 vittime tra morti e dispersi, un terremoto di magnitudo nove, uno tsunami, tre reattori severamente danneggiati e un rilascio di materiali radioattivi pari al 20% di Chernobyl. In altre parole, Fukushima. Nel 2013 le circostanze erano ancora delicate, specialmente a causa degli sversamenti di acqua radioattiva in mare, l’ultimo dei quali risale a febbraio di quest’anno. A fronte delle ultime misurazioni, gli esperti sembrano ora convinti che la situazione sia migliorata e relativamente sotto controllo.

Gli ultimi numeri delle radiazioni

“Gli ultimi dati sui quali possiamo basarci per valutare lo stato dell’arte a Fukushima sono pubblicazioni internazionali”, spiega Adolfo Esposito, direttore del Servizio salute e ambiente dell’INFN (Istituto nazionale di fisica nucleare) ai laboratori nazionali di Frascati. “Sia i lavoratori della centrale che la popolazione delle zone evacuate sono stati sottoposti a una dose efficace media inferiore a 10 millisievert; nei bambini più piccoli, invece, la dose è due volte quella di un adulto. Si tratta di un valore che tiene conto sia dell’irraggiamento esterno, l’equivalente di una lastra, sia di quello interno, il materiale inalato, assunto tramite cibo o entrato da una ferita. Una dose relativamente piccola, se si pensa che il limite annuale è circa 20”.

Le persone che durante l’incidente si sono riparate in casa hanno comunque evitato l’esposizione del 90%, e i cittadini giapponesi sono ora sottoposti a radiazioni per 2 millisievert l’anno o poco più, paragonabili a quelle provenienti da sorgenti naturali. “Volendo fare un paragone, a Frascati, in area romana, la dose media annuale è 2,4 ed è dovuta proprio alla radioattività naturale. Su tutta la crosta terrestre sono diffusi uranio, torio, potassio 40, radionuclidi primordiali con un tempo di dimezzamento estremamente lungo. Parliamo di miliardi di anni. Dal decadimento dell’uranio, ad esempio, deriva il radon che abbiamo nelle nostre case”.

La preoccupazione è invece fondata quando si superano i 100 millisievert. “Pensando a Hiroshima e Nagasaki, con cifre simili si può fare una correlazione con l’incidenza di tumori nei 30 anni successivi all’esposizione. A Fukushima non ci si aspetta di vedere un aumento significativo, perché questo livello di esposizione ha riguardato solo lo 0,7% della forza lavoro impiegata nella centrale”. Secondo l’ultima valutazione pubblicata su PNAS, infatti, l’aumento dell’incidenza di determinate patologie (leucemia 0,03%, tumori solidi 1,06%, tumore al seno 0,28%) è relativamente poco incisivo.

Stato dell’arte e provvedimenti

“Nel caso di Fukushima non c’è stato un incendio, che normalmente porta in alto i materiali che arrivano fino alla troposfera, per poi spostarsi”, spiega Esposito. “I valori nelle aree antistanti la centrale sono piuttosto stabili, e le concentrazioni di cesio 137 e 134 non sono elevate. A distanza dalla centrale, addirittura, le strumentazioni meno sensibili non rilevano nulla perché l’effetto di diluizione è abnorme”. I dati sono più incoraggianti di quanto ci saremmo aspettati, spiega Esposito, “Evitando che i reattori prendessero fuoco, i giapponesi hanno scongiurato una tragedia molto più grave”.

L’urgenza ora è seguitare a raffreddare i reattori. La centrale tuttavia non è integra, e l’acqua impiegata a questo scopo si contamina. Va dunque recuperata e trattata all’interno di appositi impianti di decontaminazione. “I punti cruciali sono: rimuovere la sorgente di contaminazione, isolare le falde acquifere e prevenire ulteriori perdite dai serbatoi”, spiega Esposito. “La radioattività dell’acqua nelle cisterne non è elevata, il problema sono gli interventi sui pezzi di combustibile nel reattore. A questo scopo hanno iniziato a sperimentare dei robot nella centrale, ma se ne era parlato già ai tempi dell’incidente di Tokaimura. L’unico ostacolo è rappresentato dal fatto che tutta l’apparecchiatura elettronica deve essere radio-resistente: bisogna valutare il danneggiamento a cui potrebbero essere soggetta con vari tipi di radiazioni”.

Serbatoi, falle e sversamenti

“Le falle nei primi serbatoi erano casi isolati”, spiega Esposito. “Le cisterne erano in realtà flange tenute insieme da bulloni, e le perdite si verificavano per questo. Un po’ alla volta sono state sostituite, e potremmo dire che il problema è stato risolto. Ora bisogna impermeabilizzare il terreno sottostante la centrale, dove ci sono numerosi cunicoli di collegamento per il passaggio dei cavi”. Per isolare le falde sono stati presi vari provvedimenti, come iniezioni di materiali impermeabilizzanti (silicato di sodio e vetro liquido) nel terreno. Per evitare infiltrazioni d’acqua piovana, invece, la superficie è stata coperta da uno strato d’asfalto. “L’acqua che arriva dalla montagna è stata incanalata in modo da portarla al mare, ed evitarne il passaggio sotto la centrale. Entro il 2015 verrà poi completato un nuovo sistema di decontaminazione dell’acqua, più efficiente di quello attuale e in grado di gestire volumi maggiori. La priorità è eliminare il cesio 137, seguito dagli altri radionuclidi”.

E gli sversamenti di tonnellate d’acqua contaminata in mare? Quanto è lecito pensare che il materiale radioattivo potrebbe riguardarci tutti? “Pensando al coefficiente di diluizione, è impensabile che le quantità d’acqua fuoriuscite dai serbatoi la scorsa estate comportino i danni preannunciati quando la situazione era incerta”, commenta Esposito. “Si parla di una diluizione che potremmo paragonare a quella dell’omeopatia. Le misurazioni sono state fatte anche a 1000 km dal Giappone, su pesci provenienti da varie zone, e la situazione non è grave come era stato pronosticato”.

Riaprire le centrali, si o no: il dilemma dell’energia

La riapertura delle centrali in Giappone è ora al centro del dibattito, specialmente a fronte di risorse naturali pressoché inesistenti. In un paese industrializzato diventa infatti molto complesso sostituire, nel giro di una manciata d’anni, la produzione di energia elettrica a partire dall’atomo con quella che sfrutta altre fonti. “Le fonti rinnovabili non sono comunque sostitutive del petrolio, o del nucleare, basta pensare alla Germania. Hanno deciso di chiudere le centrali, ma nel frattempo le tengono in funzione progettando di installare generatori off-shore nel Mare del nord, con tutti i problemi che ne conseguono per trasportare l’energia. Tutti i paesi occidentali condividono il problema dell’energia, specialmente quando non possiedono risorse naturali in situ. Noi stessi acquistiamo il gas, insieme al rischio che un giorno qualcuno potrebbe chiudere il rubinetto”.

L’analisi del rischio, nel caso delle centrali nucleari, deve dunque contemplare gli eventi più impensabili. “La lezione che dovremmo imparare? Probabilmente che il nucleare andrebbe gestito direttamente dallo stato, e non da una società privata. Bisogna avere pensato a tutto, aver parlato con gli esperti per conoscere tutti i possibili rischi. La probabilità che si verifichi un incidente, comunque, non è mai zero”.

Crediti immagine: Japan Ministry of Land, Infrastructure and Transport, Wikimedia Commons

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".