SPECIALE MARZO – La foto della stretta di mano tra il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e il segretario di Stato Usa John Kerry difficilmente entrerà nella storia accanto a quella di Rabin e Arafat in posa davanti a un raggiante Clinton nel settembre 1993. Lo scorso 24 novembre, a Ginevra, per sancire la raggiunta intesa sul nucleare iraniano, Kerry e Zarif si sono salutati velocemente, senza troppe cerimonie, parzialmente coperti dagli altri delegati.
Al tavolo delle trattative in quei giorni si sono seduti l’Iran e il gruppo dei cosiddetti 5+1 (ovvero i membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU, Usa, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, più uno, la Germania). L’accordo raggiunto ha una scadenza temporale di sei mesi, e nessuno si sogna di considerarlo una pietra miliare nei rapporti tra l’Iran e l’occidente. Eppure, a seconda di quello che succederà nei prossimi mesi, potrà senza dubbio essere ricordato come una piccola svolta verso il disgelo. L’obiettivo è infatti quello di dare possibilità e respiro a ulteriori negoziati, e prendere tempo per costruire un patto definitivo che possa fermare il programma nucleare militare iraniano ancorandolo ai soli scopi pacifici e civili.
L’accordo
A Ginevra l’Iran ha accettato di congelare il suo programma nucleare per sei mesi. Ha bloccato l’arricchimento dell’uranio oltre il 5%, un livello sufficiente per la produzione di energia che richiederebbe però un ulteriore arricchimento per la fabbricazione di ordigni nucleari (e per questo l’accordo prevede lo smantellamento dei collegamenti tra le diverse reti di centrifughe).
Per quanto riguarda l’uranio arricchito al 20%, molto vicino cioè al poter essere utilizzato per la fabbricazione di bombe, l’accordo prevede la trasformazione delle scorte presenti nel paese in ossido (inutilizzabile a scopi bellici). L’Iran ha poi accettato di non installare nuove centrifughe e di non costruire nuovi impianti di arricchimento (ma non dovrà smantellare nessuna delle centrifughe esistenti).
A qualche settimana dall’accordo sono iniziate le ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che ha ricevuto un ampio mandato di controllo all’interno dei trattati. Uno dei nodi delle trattative è stato il reattore nucleare ad acqua pesante di Arak, la cui costruzione sarebbe dovuta terminare proprio in questi mesi, ma che l’Iran sembrerebbe aver accettato di rinviare.
In cambio di tutto questo, l’Iran riceverà la sospensione di una parte delle sanzioni provenienti dalla comunità internazionale, oltre al blocco temporaneo di nuove sanzioni. Una boccata d’aria quantificabile in circa 7 miliardi di dollari.
Ora però inizia la vera sfida: trasformare questo patto in un programma a lungo termine. La prossima tornata di negoziati si terrà tra qualche giorno, il 18 marzo, a Vienna.
Come siamo arrivati sin qui
La storia del nucleare iraniano è lunga e tortuosa, e ha inevitabilmente seguito le sorti degli equilibri interni, spesso incerti, del paese. Limitando lo sguardo agli ultimi quindici anni, una delle date più importanti è il dicembre 2002. Fu allora che il MEK (Mujahideen-e-Khalq, un gruppo dissidente di opposizione iraniano) documentò come il governo iraniano avesse dato il via in tutta segretezza a diversi dei piani per l’arricchimento dell’uranio. Solo un anno dopo, nel 2003, forse spaventato dalla vicina guerra in Iraq, l’Ayatollah Khamanei ordinò la sospensione dei lavori sulle tecnologie nucleari belliche. Proprio in quegli anni a gestire i negoziati sul nucleare c’era Hassan Rouhani, dal 2013 presidente del paese. Più moderato del suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, Rouhani ha oggi messo in piedi un governo con posizioni più morbide e concilianti in politica estera.
All’epoca però, nonostante gli annunci e le trattative, l’arricchimento di uranio continuò, tra sanzioni, minacce, provocazioni e giochi di potere. L’Iran ha ufficialmente sempre sostenuto che il suo programma di arricchimento fosse destinato a soli scopi civili (ovvero per la produzione di energia e di isotopi medici), appellandosi ai diritti riconosciuti nel Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Il lavoro degli ispettori dell’AIEA non venne però mai agevolato, e la stessa Agenzia nel corso degli anni non ha mai potuto escludere che l’obiettivo finale del programma nucleare iraniano fosse proprio quello militare.
Da Ginevra a Vienna
Com’è la situazione oggi? Per ora è difficile leggere oltre i tatticismi e discernere tra dichiarazioni di facciata e intenti reali. Secondo il leader supremo del paese, l’Ayatollah Ali Khamenei, i nuovi negoziati sul nuclare “non porteranno da nessuna parte”. Eppure lo stesso Khamenei ha emesso un decreto religioso che vieta la produzione e l’uso di armi nucleari. Allo stesso modo Rouhani ha definito il possesso di armi nucleari un peccato, oltre che una cosa inutile, dannosa e pericolosa: “La nostra fede, la nostra religione e i nostri principi ci tengono lontani dalle armi di distruzione di massa”, ha affermato.
Eppure risale solamente al 2011 il caso di Omid Kokabee, fisico iraniano condannato a 10 anni per cospirazione ai danni dello stato. In una lettera aperta, pubblicata tra gli altri anche da Nature, Kokabee dice di essersi ritrovato in carcere dopo aver rifiutato in diverse battute le insistenti proposte di lavorare a un laser di alta potenza ad anidride carbonica. La separazione isotopica dell’uranio mediante laser è secondo molti una delle tecnologie con possibile applicazione militare silenziosamente sviluppate in Iran.
A questo quadro tutt’altro che idilliaco va aggiunta poi l’uccisione di 5 fisici nucleari (dal 2007 a oggi) legate al programma nucleare iraniano, secondo un’inchiesta della NBC uccise per mano del MEK, probabilmente in collaborazione con il Mossad.
È difficile dire come si evolveranno i negoziati a Vienna. Israele ha già mostrato tutti i suoi dubbi sul patto temporale di sei mesi, e probabilmente alzerà ancora di più la voce ora che si punta a stipulare un accordo con carattere definitivo. Aspettando il 18, le ultime dichiarazioni disponibili sono quelle di Catherine Ashton, alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, che lavora in rappresentanza dei 5+1. “There is no guarantee that we will succeed”, ha ammesso laconicamente domenica scorsa.
Crediti immagine: U.S. Department of State, Wikimedia Commons