ESTERI – Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, quella che è l’epidemia di ebola più grave della storia ha mietuto a oggi 672 morti, per un totale di 1201 casi tra Guinea, Sierra Leone e Liberia. L’emergenza è stata affrontata a partire dai primi episodi, verificatisi nel mese di marzo di quest’anno, e a oggi l’Unione europea ancora tranquillizza sull’improbabilità del pericolo che il virus arrivi fino a noi, tramite spostamenti aerei di passeggeri infetti.
Gli ultimi casi sono stati diagnosticati tra il 21 e il 23 luglio, con 96 nuove infezioni e sette decessi, mentre il Ministero della salute nigeriano ha riportato di aver individuato quello che sarebbe il primo caso in tutto il paese. Si tratta di un uomo di 40 anni originario della Liberia, che di recente si era recato in Nigeria, ricoverato per sintomi sospetti che hanno fatto subito pensare all’ebola. Entrato in ospedale il 20 luglio, subito dopo il suo arrivo, è poi morto cinque giorni dopo.
Qualche tempo fa l’OMS escludeva la possibilità di ricorrere a restrizioni sui viaggi e sui movimenti delle merci, dichiarando che se fossero state rispettate le basilari norme igieniche il pericolo sarebbe rimasto trascurabile, anche per chi si sposta nei paesi colpiti. La situazione è ovviamente cambiata, e mentre in Liberia cresce la paura sono state chiuse le scuole, gli edifici pubblici e molti dei punti di accesso al paese. È inoltre aumentata la sorveglianza, specialmente negli aereoporti. Mentre da Medici Senza Frontiere arriva un messaggio piuttosto eloquente, e l’epidemia viene definita fuori controllo, aumentano i fondi stanziati dall’Unione europea a sostegno delle attività mediche in loco: nei paesi colpiti sono ormai in vigore misure precauzionali molto rigide in tutti i luoghi di aggregazione.
Terapie e cure compassionevoli
Mentre l’epidemia non accenna a ridimensionarsi non si ferma neppure la ricerca, per sviluppare farmaci e vaccini contro il virus. Alcuni sono già stati testati su campioni animali con primi risultati promettenti, ma non hanno ancora completato le sperimentazioni su esseri umani. Entra così in gioco la possibilità delle cosiddette cure compassionevoli, un’espressione della quale si è abusato negli ultimi mesi ma che, stavolta, è stata presa in considerazione a ragion veduta: tra scienziati, esperti e decisori politici è infatti in corso un dibattito sulla possibilità di rendere disponibile un farmaco o un vaccino (che ancora non ha superato i trial clinici, né ha ottenuto licenze) per le popolazioni più a rischio, specialmente quelle che dimostrano estrema diffidenza nei confronti dei team di medici presenti sul luogo e dei provvedimenti sanitari stessi.
Seppur la comunità scientifica sembri schierata su questo fronte, secondo quanto riporta un articolo su Science le cure compassionevoli non vedranno la luce tanto presto. Come spiega Erica Ollmann Saphire, esperta in cristallografia a raggi x, “qualcosa è comunque meglio di niente”. “Ho già partecipato ad almeno dieci conferenze su questo tema”, aggiunge Lisa Hensley del National Institute of Allergy and Infectiouse Diseases (NIAID) del Maryland. La risposta delle autorità, per ora, sembra comunque categorica, e lo stesso personale medico che lavora sul campo in Africa non pare convinto. Le popolazioni locali che sono state colpite dal virus sono infatti già molto diffidenti nei confronti dei medici stranieri, e molti li considerano dei veri e propri untori: è infatti sempre più diffusa l’idea che siano loro a diffondere il virus, approfittando dei numerosi decessi per alimentare il mercato nero degli organi. Portare sul territorio vaccini o farmaci non ancora testati, seppur con le migliori intenzioni, potrebbe dunque avere effetti controproducenti.
Ricerca ed eccezioni
Se da un lato gli scienziati non comprendono questa scelta a fondo, dall’altro sperano che una simile emergenza, senza precedenti, possa servire a velocizzare le sperimentazioni dei farmaci e dei vaccini in questione. Averne così tanto bisogno, ora, è giunto del tutto inaspettato. Negli ultimi trent’anni si erano verificati 2.400 casi, divisi tuttavia in oltre dieci paesi africani: i finanziamenti per la ricerca medica su questo virus hanno seguito la logica di quelli per la malaria, in assenza di un mercato promettente. Sono stati insomma piuttosto scarsi e incostanti, e per questo nessun prodotto è a oggi arrivato sul mercato dopo il consueto iter di sperimentazione. Il vaccino elaborato dal team di ricercatori guidati da Heinz Feldmann del NIAID è stato testato su otto esemplari di macachi rhesus: dopo aver ricevuto una dose letale della forma Zaire del virus (quella che attualmente devasta l’Africa) è poi stato somministrato loro il vaccino. Quattro sono sopravvissuti a quella che doveva essere morte certa, grazie all’immunizzazione.
Un risultato che non andrebbe sottovalutato trovandosi di fronte a un virus che nella corrente epidemia ha un tasso di mortalità superiore al 60%. Dati i primi risultati di Feldmann, si legge su Science, è stato dato inizio alla prima fase dei trial clinici, necessitando di più dati per poter proseguire la ricerca e garantire la sicurezza degli esseri umani. Ma un’eccezione, nel nome delle cure compassionevoli, si è mai fatta? La risposta è si, nel 2009, quando una ricercatrice tedesca si punse con una siringa contenente il virus, e il prototipo di vaccino le fu spedito subito e somministrato nel giro di 48 ore dall’incidente. La scienziata non contrasse la malattia, ma ancora oggi non sappiamo se fu merito del vaccino o meno. La conclusione alla quale sono arrivati gli esperti, in ogni caso, è che è giunta l’ora di massimizzare gli sforzi nella ricerca, per arrivare preparati alla prossima epidemia.
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine: European Commission DG ECHO, Flickr