SALUTE – La somministrazione di un composto immunizzante, simile a un vaccino, è riuscita a proteggere un campione di topi dalla malaria. La scoperta è stata pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, e suggerisce una potenziale nuova strada per raggiungere l’ambito obiettivo dell’eradicazione della malaria. Tramite l’immunizzazione della popolazione a rischio.
Questa malattia infettiva è tra quelle con il più elevato tasso di mortalità: ogni anno uccide almeno un milione di persone, la maggior parte dei quali sono bambini Africani. I ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health hanno alterato geneticamente un virus, per poi iniettarlo negli animali in modo da creare gli anticorpi in grado di combattere il parassita della malaria (veicolato dalle zanzare) producendo alti livelli di di anticorpi specifici. Un anno dopo l’esperimento, dopo una sola somministrazione, la situazione di immunizzazione era la stessa, e gli anticorpi ancora prodotti. L’approccio, che prende il nome di immunoprofilassi guidata da vettore (VIP) si è già dimostrato piuttosto promettente nelle ricerche in ambito HIV. Finora non era mai stato sperimentato nella lotta alla malaria, per la quale al giorno d’oggi ancora non esiste un vaccino ufficiale.
Delle quattro tipologie di malaria che colpiscono gli esseri umani, la più letale nonché più diffusa è proprio quella causata dal parassita Pladsmodium falciparum. Se da un lato la mortalità è diminuita, grazie ai trattamenti anti-malaria e alle modificazioni dell’habitat che ospita le zanzare, il numero di casi rimane molto elevato e combattere la malattia è considerata una delle priorità sanitarie mondiali. “Chiaramente ancora non sappiamo quale sarebbe il dosaggio umano, ma è concepibile che il corretto dosaggio possa proteggere del tutto dalla malaria”, spiega Cailin Dal, leader della ricerca durante il suo dottorato presso la Johns Hopkins.
Esiste comunque una sottile differenza tra un vaccino e un’iniezione VIP. La differenza chiave sta nel fatto che la seconda è formulata in modo da produrre un anticorpo specifico, scavalcando la necessità da parte dell’ospite di elaborare una propria risposta immunitaria. Il gene legato all’anticorpo viene invece fornito direttamente, in modo da poter attaccare il parassita. “Invece di concentrarsi sulla difesa, il corpo attacca”, spiega Gary Ketner, professore di microbiologia e immunologia della Johns Hopkins.
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