IN EVIDENZASPECIALI

Quanto siamo (im)preparati alla de-estinzione

14779617283_9d83225bdd_zSPECIALE AGOSTO – La tigre di Giava. Lo stambecco dei Pirenei. Il dodo. Magari anche il mammut. Di nuovo tutti tra noi. Potrebbe succedere grazie alla de-estinzione, una vera e propria “biologia della resurrezione”, un intero filone di ricerca che lavora per riportare in vita le specie animali ormai scomparse o destinate presto a scomparire. E no, non si tratta di una fantasia alla Jurassic Park: la teoria c’è già tutta e anche le tecniche per la manipolazione del materiale genetico di partenza secondo gli scienziati delle università più prestigiose sarebbero cotte quasi a puntino, tanto da indurci a credere che massimo entro dieci anni potremmo davvero toccare con mano qualche esemplare proveniente dal passato.

Magari a partire da quelli scomparsi più di recente, col contributo anche di azioni sconsiderate dell’essere umano come il piccione migratore, di cui appena qualche giorno fa celebravamo il centenario dall’estinzione ma che allo stato dell’arte risulta il più quotato come numero uno nella lista degli animali davvero “pronti alla resurrezione”. Una lista bella lunga, che conta esperimenti anche molto promettenti in laboratorio, ma a oggi ancora in fase di studio, perfezionamento e discussione. E in cui nessun esemplare è mai sopravvissuto, se non nel caso dello stambecco dei Pirenei dove il cucciolo, venuto alla luce grazie all’impiego del grembo di una madre di un’altra specie (una capra), è rimasto però in vita solo per una manciata di minuti per malformazioni respiratorie.

Ma quali sono gli step che ancora la ricerca deve compiere per riprodurre un animale ormai scomparso? E quanto siamo pronti noi, come società, ad accogliere un cambiamento dall’impatto così radicale sul nostro ambiente – ma anche sul modo in cui concepiamo il potere della scienza? La questione è estremamente complessa e, seppur senza pretesa di esaustività, abbiamo provato a fare un punto.

L’ultimo gradino della ricerca

Cosa manca a livello prettamente scientifico-tecnologico agli scienziati per iniziare davvero a ripopolare le specie estinte? Come dicevamo, non moltissimo a loro dire, tanto da poter affermare che su questo piano siamo, se non quasi preparati, in fase di preparazione.

A oggi, le strade percorse dai biologi verso la meta della de-estinzione sono principalmente due: la manipolazione genetica e il tentativo di riportare indietro l’animale mediante accoppiamento mirato dei suoi simili ancora in vita.

Nel primo caso, che è quello che coinvolge il piccione migratore, lo stambecco dei Pirenei, ma anche lo stesso mammut, l’idea di base è utilizzare il dna recuperato dai resti delle specie estinte per fecondare la femmina di una specie diversa, anche se molto simile: quella che nel gergo dei clonatori si chiama madre surrogata. Nel caso del piccione migratore, è stata scelta un’altra varietà di piccione, la patagioenas fasciata; nel caso dello stambecco, come dicevamo, una capra; in quello del mammut, un elefante asiatico.

Se i rimasugli di dna delle specie defunte non sono completi al 100% (cosa estremamente frequente in quelle estinte da molto tempo), questi vengono integrati con tratti di materiale delle specie ausiliarie e, anche se il prodotto finale non sarà completamente identico al suo defunto antenato, dovrebbe comunque assomigliarvi in modo molto ravvicinato. Questa, perlomeno, una descrizione molto semplificata di come avviene la procedura.

Una procedura non priva di difetti che, come già anticipato, non è ancora riuscita a garantire in nessun caso la sopravvivenza degli organismi riprodotti, ma dove la ricerca sta facendo passi da gigante. E non solo grazie all’incalzante innovazione tecnologica, ma anche agli sforzi di associazioni come la Revive & Restore, che la supportano anche dal punto di vista economico, tanto che forse ora gli scienziati iniziano a “vedere la luce in fondo al tunnel”. Grazie all’integrazione con una nuovissima tecnica per la modifica del genoma, infatti, si è spalancata la possibilità di correggere gli errori genetici e produrre degli individui sani, che possano raggiungere l’età adulta. Si tratta in particolare del cosiddetto sistema CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, in italiano: brevi ripetizioni palindrome – di DNA – raggruppate e separate da intervalli regolari), un vantaggio nel sistema taglia-e-cuci del dna che offre nuove possibilità ai ricercatori che puntano non solo a rigenerare le specie scomparse, ma anche ad aumentare il numero di esemplari di quelle a rischio di estinzione, in modo tale da scongiurarla.

L’altro sistema in corso di studio, quello mediante accoppiamento mirato tra specie diversa, è stato sondato per ora solamente sull’uro, un grosso bovino estinto da oltre 500 anni (l’animale rappresentato nelle celebri pitture rupestri delle grotte di Lascaux, per intenderci). Il progetto in questo caso prevede di far incrociare sessualmente i successori dell’uro, cioè altre tipologie di bovini, in una sequenza tale da risalire, incrocio dopo incrocio, alle caratteristiche morfologiche dell’animale originario, conosciute grossomodo in base ai reperti archeologici e alle tracce di dna raccolte. Si tratta però di una via meno popolare tra gli scienziati, e con promesse più limitate rispetto al caso della manipolazione genetica.

Quali sono i dubbi (e i vuoti)

Se sul versante tecnico-scientifico il tema della de-estinzione suscita un generale entusiasmo, grosse curiosità e anche un certo ottimismo, nel campo del dibattito etico e giuridico la situazione è ben più frenata. Gli stessi scienziati invitano ad attente riflessioni sull’impatto, sia in positivo che in negativo, di questo tipo di pratiche, mettendo in guardia sulla possibilità di un’imminente svolta epocale. Ma finora con scarsi risultati, con dibattiti che hanno (ma solo di recente) infiammato le aule delle università, ma suscitato molto poco l’interesse della popolazione. Forse perché in generale la possibilità che questo fenomeno possa realmente verificarsi viene ancora percepito come un’ipotesi remota e i “campanelli d’allarme” non hanno ancora davvero iniziato a suonare. A ogni modo, se c’è un’area dove siamo del tutto impreparati alla reintroduzione delle specie estinte è l’analisi e la discussione in merito alla loro gestione.

C’è chi ha iniziato a esprimersi sui pro e i contro e molte potenzialità – così come alcuni rischi – sono in parte state esposte. I potenziali effetti benefici sull’ecosistema, l’inestimabile valore conoscitivo dell’osservazione diretta delle specie poco conosciute, l’eventualità di frenare la scomparsa delle specie in pericolo. In merito ai rischi, quello di poter recare un danno agli attuali equilibri dell’ecosistema, la possibilità di creare attriti tra le vecchie e le nuove specie, il pericolo che il ritorno di animali ormai scomparsi riporti alla luce malattie sconosciute e pericolose per l’essere umano e l’ambiente. Ma sembra che manchi del tutto una valutazione sistematica, che abbracci l’intera questione e tenti di stilare ipotesi prive di preconcetti.

Le problematiche sollevate sfociano spesso sull’accusa all’uomo di un generico “voler giocare a fare Dio” oppure, dal canto opposto, quella di non voler dare una nuova speranza a creature estinte o spacciate. E ci si sofferma molto poco sugli aspetti più sottili: le sofferenze che verrebbero inflitte agli animali necessari per le pratiche (le madri surrogate) per esempio, o la possibilità che metterci a disposizione una “soluzione” prettamente tecnologica ci faccia abbassare la guardia nei confronti dell’ambiente, mettendo a rischio (anziché preservare) la biodiversità. Come se, in fondo, potessimo sistemare tutto premendo un semplice bottone.

Per non parlare poi del piano legislativo. Se è vero infatti che esiste un manifesto con la scala di priorità per le specie a rischio di estinzione (l’Endangered Species Act), non esiste alcuna regola scritta in previsione di un ritorno alla luce delle specie estinte. Al massimo è contemplata qualche rara riflessione. Non sono noti permessi né divieti, né tantomeno una selezione delle specie che sarebbe legale o meno recuperare così come neppure una graduatoria delle urgenze. Non esiste una bozza di regolamento su come gestire l’eventuale integrazione tra specie vecchie e nuove, non esiste alcuna linea guida su come eventualmente comportarci se una di queste venisse messa in pericolo o se subentrasse il rischio di una riproduzione incontrollata. Lo stesso per la coabitazione tra questi animali e gli esseri umani, sul fatto se lasciare le vecchie specie libere o in cattività, sull’eventualità di relegarli in aree circoscritte.

Certo, non c’è ancora niente di assicurato e forse la de-estinzione non avverrà mai. In questo caso non prepararci sugli aspetti etici e legali ci avrà senz’altro fatto risparmiare un sacco di tempo. Ma nel caso un salto della ricerca riuscisse a scavalcare gli attuali ostacoli, stupendoci entro quattro, cinque anni con la ricomparsa di una specie di piccione che non vedevamo ormai da un secolo, poi di un vecchio stambecco, e magari anche di un mammut, la gestione di questo nuovo potere e di queste nuove entità spalancherebbe le porte a bilanci che forse avremmo dovuto compiere in anticipo. Alla vigilia di questa possibilità, sembra proprio che il ritmo verso la de-estinzione sia scandito solo ed esclusivamente dalle mosse della scienza, mentre noi non abbiamo elaborato alcuna iniziativa su come accogliere questo cambiamento.

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Crediti immagine: William Hartman, Flickr

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