CRONACAIN EVIDENZA

No. L’ovocita (manipolato) non è un embrione

Lo afferma una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, aprendo la strada alla brevettabilità di queste cellule

6805264059_2dffa2c790_b

CRONACA – Per fare un embrione umano ci vogliono una cellula uovo e uno spermatozoo, giusto? In effetti in natura funziona così, ma in laboratorio le cose possono andare diversamente, grazie a metodi che permettono di “attivare” un ovocita in modo che cominci a dividersi e a svilupparsi anche senza essere stato fecondato da un gamete maschile. Si chiama partenogenesi, è piuttosto semplice da ottenere – basta mettere in coltura l’ovocita con alcuni agenti chimici – e il risultato è un partenote, una cellula che, almeno nelle primissime fasi di sviluppo, si comporta come un embrione. Ebbene, negli ultimi anni il partenote è stato al centro di una vicenda giuridica che ha visto compiersi ieri, 18 dicembre, il suo ultimo (o meglio, penultimo) atto, con una sentenza della Corte di giustizia europea secondo la quale un ovocita attivato per partenogenesi non può essere automaticamente considerato un embrione, in grado di svilupparsi in un essere umano. In pratica, il contrario di quanto affermava una sentenza precedente di tre anni fa. Ma andiamo con ordine.

Tutto è cominciato con una richiesta di brevetto fatta dalla company biotech americana International Stem Cell Corporation (ISCO) all’Ufficio britannico per la protezione della proprietà intellettuale. La richiesta riguardava un processo di attivazione partenogenetica di ovociti per la produzione di cellule staminali embrionali umane. Già, perché oltre che a studiare le primissime fasi di sviluppo di un organismo, distinguendo tra il contributo maschile e quello femminile, un partenota serve anche a questo: a derivare cellule staminali embrionali, aggirando i limiti etici dati dall’utilizzo di cellule uovo fecondate. Tra i primi a sviluppare la tecnica ci sono stati anche degli italiani, guidati da Fulvio Gandolfi del Dipartimento di scienze animali dell’Università di Milano.

L’ufficio britannico dei brevetti, però, aveva respinto la richiesta, sulla base della direttiva europea sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, secondo la quale non sono brevettabili gli utilizzi di embrioni umani a fini industriali o commerciali. Ora, il punto è che in una sentenza emessa nel  2011, la Corte di giustizia europea aveva incluso nella nozione di embrione umano, in quanto potenzialmente in grado di dare origine a un essere umano, non solo gli ovociti fecondati, ma anche ovociti non fecondati sottoposti a trasferimento nucleare (il processo alla base della clonazione terapeutica) e ovociti attivati per partenogenesi.

Una definizione secondo molti un po’ troppo estesa, considerato che, di fatto, un partenota è in grado di raggiungere solo le prime fasi dello sviluppo embrionale. «Praticamente, quelle che corrispondono alla fase preimpianto, cioè i primi 4-5 giorni» commenta Maurizio Zuccotti, associato di embriologia e istologia all’Università di Parma e collaboratore del Laboratorio di biologia dello sviluppo dell’Università di Pavia. «Mancando l’apporto del genoma maschile, il partenota non è in grado di proseguire oltre il suo sviluppo». Dunque la capacità di dare origine a un essere umano non c’è, e da qui l’appello della company all’alta corte europea. Che ora concorda: per poter essere considerato un embrione, un ovocita non fecondato deve comunque avere la capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano e il semplice fatto che un ovocita partenogenetico inizi uno sviluppo non basta a considerarlo tale.

In realtà, il percorso verso la brevettabilità delle cellule dell’ISCO non è finito, perché a questo punto la corte Ue lascia ai giudici britannici il compito di stabilire definitivamente se queste famose cellule siano in grado o meno di svilupparsi in essere umano. Ma alla ISCO, che ha già nel cassetto 15 linee di staminali embrionali partenogenetiche e si appresta ad avviare, nel gennaio 2015, una sperimentazione clinica sul morbo di Parkinson, cantano comunque vittoria. «Questa sentenza apre le porte alla brevettabilità anche in Europa delle nostre cellule, già protette da brevetto negli Stati Uniti» ha dichiarato Andrey Semechkin, ceo della company. «È un passo importante per investitori e potenziali partner, dal momento che stiamo cominciato a usare queste cellule in studi clinici».

Non tutti, in realtà, sono altrettanto entusiasti. Da un lato, c’è chi teme che la sentenza possa aprire scenari inquietanti sul fronte dello sfruttamento commerciale di parti del corpo umano. Dall’altro, chi ha  qualche perplessità scientifica. «Per la nostra esperienza, le staminali derivate da ovociti partenogenetici sono cellule problematiche, altamente tumorigeniche, difficilmente utilizzabili in terapia» sostiene Fulvio Gandolfi. «Inoltre, non sono così facili da ottenere, perché servono ovociti umani, che sono merce rara. Otto anni fa, noi siamo riusciti a lavorare con queste cellule grazie a un effetto collaterale della legge 40 sulla PMA: poiché all’inizio si poteva fecondare solo un numero limitato di ovociti, ce n’era sempre un eccesso che poteva essere usato a scopo di ricerca. Oggi in genere vengono fecondati tutti, dunque eventuali ovociti da utilizzare in laboratorio dovrebbero essere prodotti appositamente e non è così semplice».

Immagine pubblicata con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.

Crediti immagine: Flavio~, Flickr

Condividi su
Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance