Gli acidi grassi del pesce compensano l’esposizione al mercurio
Le attuali linee guida suggeriscono di limitare il consumo di pesce in gravidanza, ma cambieranno alla luce delle ultime scoperte
SALUTE – La presenza di mercurio nel pesce è un deterrente non da poco per chi ama mangiarlo, che diventa un importante elemento di riflessione nel momento in cui si integra con esso l’alimentazione di un bambino -o della madre incinta-. Ma la questione potrebbe essere meno grave di quanto pensassimo, perché una nuova ricerca condotta alle isole Seychelles ha scoperto che i benefici che un bimbo può ottenere dal pesce che la mamma mangia in gravidanza riescono a controbilanciare i rischi associati all’esposizione al mercurio.
I nutrienti presenti nel pesce avrebbero perciò proprietà benefiche tali da proteggere il cervello dagli effetti potenzialmente tossici del metallo, e le Seychelles erano decisamente il posto giusto per studiare la questione: i suoi 89.000 abitanti mangiano quantità di pesce circa dieci volte superiori alla media statunitense ed europea. Molte ricerche in quest’ambito vengono condotte entro il progetto Seychelles Child Development Study, iniziato a metà degli anni ’80.
Lo studio osservativo è stato pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition sfruttando trent’anni di ricerche e letteratura scientifica, a firma del team di Edwin van Wiingaarden della University of Rochester. Ne è emerso che un elevato consumo di pesce da parte di una donna incinta (si parla di circa 12 pasti a settimana) non determina problemi nello sviluppo del bambino; una relazione piuttosto complessa quella tra effetti positivi e contaminazione, che viene studiata ormai da molto tempo. L’ipotesi di Wiingarden e i colleghi è che siano gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) del pesce a compensare attivamente i danni che il mercurio determinerebbe a livello del cervello.
La ricerca ha dato la possibilità di studiare approfonditamente il ruolo dei PUFA e la loro capacità di controbilanciare le proprietà tossiche del mercurio: la quantità che una madre consuma durante i mesi della gravidanza può quindi fare la differenza in termini di sviluppo neurologico, perché dalla ricerca non è emersa alcuna associazione tra l’esposizione prenatale al mercurio -tramite consumo di pesce- e i seguenti problemi neurologici che un qualsiasi bambino potrebbe presentare dopo il primo anno di età.
La U.S. Food and Drug Administration si sta occupando al momento di rivedere e integrare le linee guida destinate proprio al consumo di pesce in gravidanza: quelle attuali consigliano alle madri di non mangiare determinate tipologie di pesci più di due volte alla settimana, proprio per il rischio legato all’esposizione a grandi quantità di mercurio. Una raccomandazione che potrebbe essere presto rivisitata.
Lo studio ha seguito più di 1.500 madri e i loro bambini durante la gravidanza (misurando i livelli di mercurio e la quantità di PUFA di mese in mese) e fino ai 20 mesi d’età, raggiunti i quali tutti i piccoli sono stati sottoposti a una serie di test per misurarne le capacità di comunicazione, valutarne il comportamento e le abilità motorie.
Confrontati i risultati, i ricercatori hanno scoperto che non vi era corrispondenza tra i livelli più alti di mercurio durante la gravidanza e i bambini che avevano ottenuto punteggi più bassi nei test; nessuna associazione tra il consumo di pesce e lo sviluppo neurologico. Al contrario i bimbi le cui madri avevano livelli più alti di PUFA (gli n3, quelli tipici del pesce) avevano ottenuto risultati migliori nelle esercitazioni. Questi acidi grassi polinsaturi in particolare hanno proprietà antinfiammatorie, e agiscono sugli effetti del mercurio proprio perché questo danneggia tramite ossidazione e infiammazione. Un livello elevato di n6 invece, gli acidi grassi provenienti da altre tipologie di carne e olii, corrispondeva nei bimbi risultati peggiori quando si trattava di testare le capacità motorie.
“Il rapporto tra i nutrienti presenti nel pesce e il mercurio potrebbe essere molto più complesso di quanto pensassimo”, commenta Philip Davidson, senior author dello studio. “Queste scoperte suggeriscono che esista un bilanciamento ottimale tra le proprietà infiammatorie dei diversi acidi grassi polinsaturi che promuovono lo sviluppo fetale. E che questi meccanismi andranno ulteriormente studiati”.
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