Pet therapy: farsi aiutare dagli animali
La mediazione da parte di un cane o un altro animale può essere di grande aiuto per i bambini con disturbi dello spettro autistico e difficoltà nella comunicazione, ma anche per gli anziani
APPROFONDIMENTO – Gatti e cani svolgono un ruolo importantissimo nella nostra vita: chiunque sia stato accolto a casa da una coda agitatissima e festosa o da un coro di fusa sa di cosa si parla. Ma il loro ruolo, come quello di molte altre specie domestiche, può andare ben oltre la compagnia e l’amicizia essere umano-animale. Può essere quello di un catalizzatore per le interazioni sociali, portando a interagire anche quegli adulti, anziani o bambini con esigenze particolari.
Di recente uno studio sulla rivista Journal of Autism and Developmental Disorders ha confermato questo ruolo sociale per i piccoli animali; i ricercatori hanno seguito 70 famiglie con bimbi e ragazzi autistici tra gli 8 e i 18 anni, tutti pazienti del MU Thompson Center for Autism and Neurodevelopmental Disorders. Il 70% delle famiglie aveva in casa un cane, mentre a rallegrare le altre dimore c’erano gatti, conigli, uccelli, persino un ragno. E i benefici sono risultati evidenti in tutti i casi: migliorava l’assertività, si presentavano più spontaneamente, rispondevano alle domande e ne facevano a loro volta molto più di prima. L’animale faceva da mediatore per le comunicazioni, facilitando la conversazione specialmente quando ne diventava l’oggetto.
Se la presenza di un piccolo animale presenta già dei benefici quando lo si ha in casa, molto diversa è la possibilità di intraprendere un vero e proprio percorso di terapia in questo senso: ovvero scegliere di provare la pet therapy, che può prevedere la mediazione di un cane, di un gatto, ma anche ricorrere a specie molto diverse come i delfini. Ne abbiamo parlato con Francesca Allegrucci, responsabile scientifica di ANUCSS, l’Associazione Nazionale Utilizzo del Cane per Scopi Sociali che dal 1998 propone terapie mediate dall’ausilio del cane.
Come funziona una seduta di pet therapy, ad esempio con un bambino che ha un disturbo dello spettro autistico?
Nel caso dell’ANUCSS si inizia con degli incontri conoscitivi in cui da subito impieghiamo la nostra metodologia, che prevede ci siano con il paziente non solo il cane e il suo conduttore ma anche una terza figura di supporto, sempre un professionista, ad esempio uno psicologo, specializzato in pet therapy. Si tratta di incontri piuttosto liberi in cui noi raccogliamo informazioni e cerchiamo anche di capire se davvero la terapia sia adatta per il bambino. Così come molti altri metodi funziona, ma ha i suoi limiti.
Poi come si prosegue?
Ogni incontro dura al massimo 45 minuti, poi la curva di attenzione finisce sia per il cane che per il bambino. Di solito la terapia si svolge su due fasi, che sono comunque molto soggettive: prima un lavoro di accudimento che prevede il contatto diretto con l’animale. Quindi accarezzarlo, toccarlo (anche con i piedi), fargli sentire il battito del cuore, spazzolarlo, dargli i biscotti, farlo bere. Poi si passa alla passeggiata, a giochi come il nascondino, il lancio della pallina e a volte si arriva a creare un percorso di agility. Si tratta di un lavoro certosino ma che può funzionare bene con un ragazzo autistico, perché attraverso comunicazione non verbale conduce il cane nel percorso, guidandolo con le mani, con la postura. Che sono poi i segnali che il cane comprende meglio.
Molte di queste cose si possono fare a casa, con il proprio animale domestico. Perché intraprendere un percorso di pet therapy?
Sappiamo che ci sono medici di base che dicono alle famiglie “al bambino farebbe bene la pet therapy, prendetegli un cane”, ma si tratta di una cosa molto diversa dalla terapia. E ancora di più quando il bambino ha dei disturbi la relazione con l’animale deve essere mediata, perché il cane ha delle competenze ma è il suo conduttore a doverle elicitare. Nel nosto caso i due lavorano come coppia, il cane e il professionista che poi è la persona con la quale il cane vive. E che lo conosce bene, sa di cosa ha paura e cosa gli piace, perciò rappresenta un punto di riferimento.
Perciò non si può usare un cane “qualsiasi” per la pet therapy, non sarebbe adatto
No, si tratta sempre di cani che sono stati scelti perché sono propensi alla socievolezza. Il che nel nostro caso ci porta a orientarci su alcune razze specifiche come i golden retriever, i labrador, i cocker. Anche un cane meticcio in alcuni casi può andare bene, se è socievole e collaborativo. Un discorso diverso va invece fatto per i cani che arrivano dal canile, ma solo perché hanno alle spalle delle storie difficili, sono meno prevedibili e più fragili. Il lavoro di pet therapy prevede un certo stress per il cane -non per niente a una certa età vanno “in pensione”- e per loro sarebbe complicato sopportarlo.
Come vengono scelti e preparati i cani da pet therapy?
Nel caso dei nostri, li seguiamo fin dalla gravidanza. La mamma e il papà sono cani a loro volta scelti per le caratteristiche, sani, sereni ed equilibrati, in modo che non solo vengano trasmessi i loro tratti genetici ma anche il modo di interagire. I cuccioli ripropongono con i simili (e anche con gli esseri umani) quello che imparano dalla mamma, perciò se lei dovesse avere una storia di traumi questa passerebbe ai piccoli che la osservano. Poi si passa a una preparazione più specifica, che serve a rendere i cani “più flessibili” e meno tendenti ad allarmarsi.
E come si fa?
Ad esempio mettendo dei pezzi di stoffa, tessuti e materiali diversi nella cuccia, così il cucciolo si abitua ad appoggiare le zampe su diverse superfici. Può sembrare una banalità, ma dandogli fin da piccoli una stimolazione variegata sotto le zampe non andranno nel panico né saranno a disagio quando troveranno terreni diversi. Pensiamo a un cane da pet therapy in un edificio come un ospedale: per rincorrere la pallina sui pavimenti lisci magari scivola, si agita e non la riporta indietro. Questo è un rinforzo negativo per il bambino. Se invece il cane è abituato a diverse superfici non si turberà. Inoltre li abituiamo al rumore della radio con varie sonorità e li portiamo a passeggiare anche in luoghi rumorosi e affollati come i centri commerciali.
Questa maggiore flessibilità come si traduce nel rapporto con il bambino?
Pensiamo a un bambino o un ragazzo con disturbi dello spettro autistico, che ha quindi un modo di comunicare complicato. Ad esempio grida all’improvviso, urla senza preavviso. Un cane “qualsiasi” tende a entrare in allarme a un rumore forte, vicino e inaspettato, mentre un cane da pet therapy è abituato a non reagire male a questo tipo di imprevisti. Di fronte a un comportamento un po’ diverso dal solito si limiterà magari a guardare il conduttore, che è il suo punto di riferimento, aspettandosi il segnale che dice “è tutto a posto”. A quel punto continuerà tranquillamente, non abbaierà ne proverà ad allontanarsi. La cosa interessante è che con tutti i pazienti, quelli con problemi di comunicazione in particolare, il rapporto è basato sul non verbale. Ed è proprio per questo che si sintonizzano più facilmente.
Ogni operatore ha un suo cane con cui lavora in coppia quindi?
Uno o due, qualcuno anche tre. Soprattutto perché questo ti permette di dare una continuità alla terapia, nonché di scegliere per diversi pazienti quale è l’animale più adatto a loro. Magari uno è molto pigro ma interessato alle coccole, quindi ama stare fermo e farsi accudire. Un altro invece preferisce correre, giocare e prendere la pallina. In questo modo si può scegliere basandosi sugli obiettivi della terapia. Inoltre bisogna considerare il fatto che usiamo soprattutto femmine per la pet therapy, che le femmine hanno il ciclo mestruale e in quel periodo le teniamo a riposo, perché è un momento delicato per loro, sono anche più stanche.
A chi consigliare la pet therapy?
Le patologie e le situazioni in cui può essere d’aiuto sono davvero molto varie. Ma piuttosto che dei criteri in questo senso è meglio parlare dei limiti, perché tutto dipende dal grado di interesse e di curiosità del paziente. Al di là dell’eventuale malattia se non c’è interesse nell’incontrare l’animale, questo non è più un rinforzo. Se invece la propensione a interagire c’è e la difficoltà è relazionale oppure motoria, il conduttore aiuta e fa da leva, motivando il paziente. Ad esempio nel caso di un anziano che non vuole fare la fisioterapia riabilitativa. Di fronte al cane, pur di fargli una carezza o di giocarci, si sforzerà di alzarsi sul tutore, di muoversi, di fare le scale.
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