GRAVIDANZA E DINTORNI

Più allattamento al seno, meno leucemia. E quindi?

Anche tra i sostenitori dell'allattamento materno, non tutti apprezzano gli studi che lo mettono in relazione con benefici per la salute dei bambini

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GRAVIDANZA E DINTORNI – Essere allattati al seno per almeno sei mesi riduce il rischio dei bambini di ammalarsi di leucemia linfoblastica acuta. La notizia non è nuovissima, ma c’è una nuova conferma, arrivata da una metanalisi (uno studio in cui si raggruppano e sintetizzano i risultati di studi precedenti) pubblicata su Pediatrics, da due ricercatori dell’Università di Haifa, in Israele. Studi come questo vengono spesso accolti con favore dai sostenitori dell’allattamento al seno, che si tratti di operatori sanitari o di genitori entusiasti: in fin dei conti, si pensa, non sono che carte in più da giocare per convincere più mamme ad allattare, anche in un’ottica di salute pubblica. Perché, concludono gli autori della ricerca, “l’allattamento al seno è una misura di sanità pubblica altamente accessibile e a basso costo”. L’entusiasmo, però, non è di tutti e anche la metanalisi in questione è stata parecchio criticata. A dimostrazione che niente è semplice, quando si tratta di allattamento .

Una delle prime voci critiche ad alzarsi – e non sorprende – è stata quella della giornalista americana Suzanne Barston, autrice del blog Fearless Formula Feeder, a sostegno dell’allattamento artificiale. Per prima cosa, Barston ha puntato il dito contro la scarsa qualità scientifica del lavoro. Non per colpa degli autori, ma per il fatto che, in una metanalisi, spesso si riflettono gli eventuali limiti degli studi di partenza. In questo caso, tra i limiti principali c’erano la mancata distinzione tra periodi di allattamento esclusivo e complementare, presente in molti studi, e la difficoltà a individuare ed eliminare tutti i potenziali fattori confondenti, che potrebbero aver interferito con l’associazione tra tipo di allattamento e rischio di malattia. Il che non significa che la conclusione raggiunta – l’allattamento al seno per sei mesi riduce il rischio di leucemia – non sia valida, ma che comunque non è ancora abbastanza chiara e che, non trattandosi di una novità, non meriti di essere pubblicizzata, come invece ha fatto molta stampa americana.

“Abbiamo capito – ha dichiarato Barston in un’intervista – che dal punto di vista della salute breast is best (‘al seno è meglio’). Questa non è una novità. Ma se le donne che usano latte artificiale non sono ancora riuscite a trovare un modo per allattare al seno per almeno sei mesi, nonostante i messaggi terroristici sul fatto che i loro bambini potrebbero per questo ammalarsi di cancro, continuare a ripetere il concetto non le aiuta di sicuro“. Al massimo, molte di queste donne finiranno solo con il sentirsi ancora più inadeguate di come spesso già si sentano (o vengano fatte sentire), ha sottolineato Tara Haelle, altra giornalista americana sul fronte dei critici. Tra l’altro, Haelle si è anche soffermata a fare due conti, per capire di che numeri stiamo parlando esattamente. Lo studio dice che la riduzione del rischio è del 19%, che può sembrare tantissimo. Ma se si guardano i numeri assoluti, il dato è molto meno impressionante, considerato che, pur essendo il più diffuso dei tumori pediatrici, la leucemia linfoblastica acuta è comunque una malattia rara. “Con il contributo dell’allattamento al seno, si passa da 4 a 3,2 nuovi casi all’anno ogni 100 000 bambini e ragazzi sotto i 20 anni”.

E non finisce qui. Perché ad alzare qualche sopracciglio sono anche promotori assoluti dell’allattamento al seno. Adriano Cattaneo, già epidemiologo dell’Irccs materno infantile Burlo Garofalo di Trieste ed esperto di salute internazionale, per esempio, non tradisce un certo disinteresse per questo genere di pubblicazioni. “Trovo paradossale continuare a cercare conferme epidemiologiche del fatto che il latte materno faccia meglio di quello artificiale. L’allattamento al seno è una situazione fisiologica, non dovrebbe avere bisogno di dimostrazioni a favore: è come chiedersi se davvero avere una gamba sia meglio di avere un arto artificiale”. Tra l’altro, secondo Cattaneo i continui messaggi su quanto sia migliore il latte materno rischiano di essere controproducenti alla causa. “Passa l’idea che il latte artificiale sia la norma e quello materno un di più. Bisognerebbe invece rovesciare la prospettiva e dichiarare, in tutti questi studi, che il latte formulato è peggiore”.

Non solo: “È proprio dal punto di vista della salute pubblica che questi studi si rivelano tutto sommato inutili”, dichiara Cattaneo. “Il problema non è informare le mamme sugli effetti benefici dell’allattamento al seno. Il vero problema è dare loro tutto il sostegno che serve, perché – se decidono di allattare al seno – possano farlo davvero”. Qualche dato aiuta a inquadrare la questione. Secondo l’ultimo report Istat su Gravidanza, parto e allattamento al seno, in Italia un terzo delle neomamme abbandona l’allattamento esclusivo entro i tre mesi del bambino, e più della metà lo fa entro i sei mesi del piccolo. “Significa che l’allattamento spesso parte, ma poi si interrompe, per tantissime ragioni che non hanno nulla a che fare con le eventuali conoscenze sui benefici dell’allattamento al seno”.

Quali ragioni? “Intanto, un mancato sostegno in ospedale, fin dal principio” sostiene l’epidemiologo. “Molti centri nascita hanno ancora routine antiquate, che ostacolano l’allattamento al seno, per esempio il fatto di mantenere separati mamma e neonato”. In effetti, dei 521 punti nascita italiani, solo 23 sono Amici dei bambini, ospedali che seguono le buone pratiche riconosciute a livello internazionale per la protezione, la promozione e il sostegno dell’allattamento materno. Per non parlare dell’assenza quasi totale sul territorio di servizi di consulenza e sostegno dopo il ritorno a casa. “Poi c’è la questione della forte pressione commerciale a favore del babyfood, gli alimenti per bambini, che viene proposto già a partire dai 4 mesi e che è rivolta a tutti: ai genitori, ma anche ai pediatri” prosegue Cattaneo. E, ancora, a remare contro ci sono fattori culturali, sociali, economici. Banalmente, se una donna deve tornare al lavoro poche settimane dopo il parto, perché magari è un’operaia precaria o una piccola imprenditrice, o una libera professionista senza particolare tutele, è difficile che riesca a continuare l’allattamento. Sì, certo, può sempre andare a lavorare con un tiralatte in borsa, ma non è detto che riesca a trovare il tempo, il modo e lo spazio per usarlo.

Anche per le donne più tutelate, restare a casa dal lavoro dopo il congedo di maternità significa rinunciare a parte dello stipendio. In questo senso, non è affatto detto che l’allattamento al seno sia una strategia a basso costo, ha commentato Haelle. Come può non essere a basso costo ottenere un sostegno adeguato all’allattamento. “In Italia, per esempio, i professionisti dell’allattamento che possano dare una mano nei casi di difficoltà non sono molto diffusi” ricorda Cattaneo. “In gran parte, questo sostegno è inaccessibile, soprattutto al Sud. In mancanza di servizi pubblici, è fiorito un certo mercato del privato che, però, ha il suo prezzo. Ecco perché credo che, più che sui benefici del latte di mamma, sarebbe utile concentrarsi su come migliorare il sostegno alle donne che intendono allattare“.

Leggi anche: Allattamento, intelligenza e stipendio

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Credit Immagine: who_da_fly/Flickr

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Valentina Murelli
Giornalista scientifica, science writer, editor freelance