SALUTE

Potenzialità e sfide aperte per la terapia CAR-T in Italia

A poco più di un mese dall'approvazione per il nostro Paese del primo 'farmaco' CAR-T per un tipo di leucemia e un linfoma, resta ancora molto da fare, sul fronte della ricerca e non solo

È di poche settimane fa, per la precisione del 7 agosto, la notizia dell’approvazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) della prima terapia cellulare di tipo CAR-T per il nostro Paese. E siamo agli albori, in una fase per molti aspetti pionieristica, di un nuovo approccio al potenziale trattamento di una lunga serie di patologie, a iniziare da alcuni specifici tipi di tumore. Al momento per l’Italia l’unico rimedio che ha ricevuto il via libera si chiama tisagenlecleucel (nome commerciale Kymriah, sviluppato da Novartis), destinato a due precise categorie di pazienti: gli adulti colpiti da una forma di linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL, un linfoma non-Hodgkin molto aggressivo) in cui non ci sia stata risposta alle terapie convenzionali o si sia manifestata una recidiva, e poi le persone sotto i 25 anni colpite da LLA, un tumore raro noto come Leucemia linfoblastica acuta alle cellule B, che poche volte risponde in modo positivo ai trattamenti standard.

Naturalmente c’è ancora molto da fare dal punto di vista della ricerca scientifica: in questo momento nel mondo sono in fase di sperimentazione diversi altri trattamenti analoghi, spesso sviluppati attraverso forme di collaborazione pubblico-privato, con l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle applicazioni possibili. La tecnica riassunta nell’acronimo CAR (Recettore Antigenico Chimerico) consiste nel modificare geneticamente i linfociti T prelevati dal sangue del paziente, in modo che una volta reimmessi in circolo possano riconoscere e attaccare le cellule tumorali. Per questo spesso si parla del trattamento come una riprogrammazione del sistema immunitario, attraverso un iter che deve necessariamente essere personalizzato per ciascun paziente e che viene a volte indicato come “farmaco”, nonostante si tratti all’atto pratico di un processo che richiede circa un mese tra il prelievo dei linfociti tramite aferesi e la loro reiniezione.

Le sfide logistico-organizzative

Uno degli aspetti più interessanti da approfondire, almeno in questa fase, è la gestione pratica del trattamento tisagenlecleucel nel nostro Paese: se ne è parlato anche nei giorni scorsi in occasione di un incontro tenutosi con la stampa italiana e internazionale a Basilea, in Svizzera, per fare il punto sulle prospettive nell’immediato futuro. In particolare, a oggi sono 10 i centri italiani già qualificati oppure in fase di qualifica per studi clinici e terapie CAR-T: tre a Milano (Humanitas, Irccs Istituto Nazionale Tumori e San Raffaele), tre a Roma (Bambino Gesù, Policlinico Gemelli e Umberto I), due a Torino (Città della salute e della scienza e l’ospedale infantile Regina Margherita) e infine il Sant’Orsola a Bologna e la Fondazione Monza e Brianza per il bambino e la sua mamma. Sette regioni, inoltre, hanno già stabilito quali sono le strutture dove saranno trattati in futuro i pazienti: Lombardia, Lazio, Liguria, Toscana, Abruzzo, Emilia Romagna e Umbria.

A rendere complessa la gestione delle terapie sono due aspetti. Il primo è che i centri di prelievo e reinfusione devono essere dotati, oltre che di un reparto specialistico in ematologia e di personale specificamente preparato per formare una equipe multidisciplinare, di alcune strutture come un reparto di rianimazione per gestire eventuali complicanze al momento della reinfusione. Per questo si prevedere che anche a medio-lungo termine il numero di strutture abilitate sul nostro territorio resterà nell’ordine di due o tre decine.

L’altro elemento riguarda invece i siti in cui concretamente si può svolgere la procedura di ingegnerizzazione dei linfociti T. Dato che la produzione è molto complicata e richiede alcune settimane di tempo, la scelta di Novartis è stata di creare un primo grande sito negli Stati Uniti, seguito da altri due più piccoli in Germania e uno in Francia, con l’obiettivo di stabilirsi a breve anche in Cina e in Giappone. Non è detto, comunque, che in futuro si arriverà ad avere un sito di produzione in ogni Paese, sia per questioni economiche sia perché occorre personale estremamente specializzato che potrebbe aver senso mantenere concentrato in poche sedi.

Ritornando all’Italia, l’obiettivo è di arrivare a garantire una copertura più uniforme possibile su tutto il territorio, anche per limitare gli spostamenti interregionali dei pazienti. Resta però il collo di bottiglia nel numero di persone trattabili mensilmente da ciascun centro (un paio, al massimo 3), e si prevede che complessivamente la frequenza delle terapie CAR-T sarà maggiore al nord rispetto al sud, un po’ come accade nel caso dei trapianti. Nel complesso si stima che al momento i pazienti nostri connazionali potenzialmente trattabili siano 600-700 all’anno, di cui 30-35 bambini. Difficile però stimare quanti di questi siano davvero in condizioni di salute idonee. Nella fase sperimentale sono già stati sottoposti al trattamento una cinquantina di italiani, di cui la metà giovani o giovanissimi.

Da ultimo, le terapie CAR-T aprono nuove discussioni in termini normativi. Anzitutto per le questioni di privacy: dato che uno scambio accidentale di due sacche di sangue comporterebbe la morte certa per entrambi i pazienti, tutto il materiale biologico prelevato viene contrassegnato con l’identità del paziente in chiaro, in deroga alle normative. E poi, di sicuro per l’Italia, ogni trattamento comporta che i linfociti T del paziente (contenuti in vasi criogenici a -120°C) attraversino i confini nazionali, determinando tempi non sempre certi per i trasferimenti dagli ospedali ai siti di produzione.

La ricerca e i rapporti con il Sistema Sanitario Nazionale

Anche per i due casi già approvati dall’Aifa, la ricerca non si è fermata. Da un lato si sta cercando di ovviare al principale effetto collaterale del trattamento, ossia una reazione avversa successiva alla reinfusione dei linfociti T nota come sindrome da rilascio di citochine, dall’altro c’è l’obiettivo di anticipare l’accesso per i pazienti colpiti da LLA, in modo da intervenire in fase più precoce. In parallelo, come già anticipato, sono in corso numerosi tentativi e sperimentazioni per estendere il numero di patologie (oncologiche e non) trattabili mediante CAR-T. Se per i trattamenti già approvati la frequenza di successo è particolarmente alta, anche superiore al 50%, non per tutte le patologie è pensabile di mettere a punto un trattamento analogo, soprattutto perché in molti casi non esiste un unico recettore su cui ci si possa concentrare nella fase di ingegnerizzazione.

Accanto al via libera di Aifa, un’ulteriore elemento è che il nostro Sistema Sanitario si farà carico delle spese relative ai trattamenti. Il costo della procedura è comunque abbastanza alto da non rendere CAR-T la prima scelta terapeutica, tanto che è prevista solo per i pazienti con una ricaduta o in cui le altre possibili cure non abbiano dato la risposta desiderata. Tuttavia, è interessante notare come il criterio di rimborsabilità delle cure abbia una componente innovativa: al posto del tradizionale sistema di pagamento contestuale alla terapia, si è stabilito un modello di rimborso cosiddetto payment at results. L’idea di base è infatti che il pagamento sia vincolato ai risultati oggettivi ottenuti, valutati sotto forma di risposta positiva del paziente dopo un lasso di tempo prestabilito rispetto alla reiniezione.


Leggi anche: Scoperto come eliminare gli effetti collaterali della terapia CAR-T

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Gianluca Dotti
Giornalista scientifico freelance. Sui social sono @undotti