Tutti nel lettone? La controversa questione del bed sharing
Facilita l'allattamento al seno, ma molti pediatri sconsigliano il bed sharing, temendo il rischio di morte in culla. Altri hanno posizioni più possibiliste, ma solo ad alcune condizioni.
GRAVIDANZA E DINTORNI – Alla fine Valeria ha ceduto. Per diverse notti ha provato a mettere la figlia neonata nella culla dopo ogni poppata ma Giulia, la piccola, è sempre affamata e reclama un po’ di latte ogni due ore o poco più. Per la mamma è diventato un tormento ogni volta doversi alzare, prendere Giulia dalla culla, accomodarsi in poltrona per offrirle il seno -cercando di non addormentarsi- poi rimetterla giù e infine tornare a letto. Così ha deciso: ha preso Giulia, l’ha messa nel lettone e tutto è diventato più facile.
Eppure la questione del bed sharing, cioè il fatto di condividere il letto con mamma e papà, è assai controversa, per la possibilità di un collegamento con il terribile fenomeno della SIDS, la morte in culla. Tanto che i medici dell’American Academy of Pediatrics consigliano vivamente il room sharing, cioè la condivisione della stessa stanza, ma contrastano il bed sharing. Secondo queste indicazioni –riprese ufficialmente dal National Institute of Child Health and Human Development e condivise da molti pediatri italiani- il neonato dovrebbe dormire per il primo anno di vita nella stanza dei genitori, ma in un lettino a parte. D’altra parte, dormire insieme quando si allatta è infinitamente più comodo e favorisce l’allattamento stesso. Il quale, a sua volta, rappresenta invece un fattore protettivo nei confronti della SIDS, come ha ricordato un recente speciale di Lancet sull’allattamento. E allora, che fare?
Il primo aspetto da considerare è che Valeria non è sola. Al di là di quello che possono consigliare i pediatri, la pratica del bed sharing esiste ed è diffusa. Per esempio: uno studio inglese pubblicato poche settimane fa su Acta Pediatrica ha valutato, tramite questionario, l’atteggiamento di 870 neomamme (seguite per 26 settimane dopo il parto) rispetto ad allattamento al seno e bed sharing. Trovando che ben il 28% del campione -più di una su quattro- praticava “spesso” il sonno condiviso. Il dato interessante è che proprio queste mamme sono state quelle che hanno allattato più a lungo sia in modo esclusivo (10 settimane, contro le tre di chi non dormiva con il proprio bebé) sia in allattamento misto (almeno 26 settimane, contro le 14 di chi non praticava il bed sharing).
Risultati analoghi vengono da uno studio americano pubblicato a febbraio su Academic Pediatrics. Il campione preso in esame era più ampio -3218 donne che hanno partorito tra il 2011 e il 2014- ma le neomamme sono state seguite solo per 60 giorni dopo la nascita dei bimbi. Tra di loro, una su cinque praticava il bed sharing: di nuovo, chi lo faceva tendeva ad allattare di più in modo esclusivo o misto.
Per chi si occupa di allattamento al seno non è un dato sorprendente. “Stare vicini, pelle a pelle, fa parte delle cosiddette cure prossimali, che aiutano la relazione tra mamma e bambino, aumentano la mutua dipendenza e di fatto rafforzano l’allattamento”, afferma la pediatra Maria Luisa Tortorella, responsabile delle cure neonatali presso l’ospedale San Vito al Tagliamento (PN) e membro dell’Associazione culturale pediatri. Di mezzo ci sono anche stimoli di tipo ormonale: il contatto fisico, per esempio, stimola in modo importante la produzione di ossitocina, ormone che favorisce il rilascio del latte da parte della mammella. Non a caso, l’antropologo James McKenna, capo del Mother-Baby Behavioural Sleep Laboratory della Notre Dame University e tra i guru del co-sleeping (sonno condiviso), parla ormai di breastsleeping, gioco di parole tra breastfeeding (allattamento al seno) e co-sleeping.
Di fronte a questo dato di fatto il punto è capire esattamente quali indicazioni dare ai neogenitori, e sulla base di quali evidenze scientifiche. Ed è qui che le cose si complicano, perché secondo i detrattori delle indicazioni dell’American Academy of Pediatrics, queste non avrebbero fondamenta sufficientemente solide. Nel 2013, per esempio, il pediatra e primo presidente della National SIDS Foundation americana, Abraham Bergman, scriveva su Jama Pediatrics che “le evidenze che legano il bed sharing di per sé all’aumento del rischio di mortalità infantile sono insufficienti”.
“Studi più recenti, come quello pubblicato nel 2014 su PLoS One da Peter Blair e colleghi, dell’Università di Bristol, sottolineano che il bed sharing diventa pericoloso per neonati e lattanti solo se sono presenti altri fattori di rischio aggiuntivi per la SIDS” afferma Tortorella. “Si tratta di una serie di fattori ben precisi e cioè: prematurità o basso peso alla nascita del bambino, obesità della madre, consumo di alcol in gravidanza, fumo in gravidanza, genitori che fumano o fanno uso di alcol, di droghe o di farmaci che riducono la vigilanza oppure genitori che fanno turni, sono molto stanchi e di conseguenza poco vigili. In tutti i questi casi il bed sharing è fortemente sconsigliato, come lo è condividere superfici che non siano il letto tradizionale ma, per esempio, il divano, la poltrona, il materasso ad acqua, perché in queste circostanze il rischio di SIDS aumenta”.
Esattamente la posizione proposta dalla Baby Friendly Initiative di Unicef UK, che nel suo opuscolo
Caring for your baby at night (Prenderti cura del tuo bambino durante la notte) offre una serie di indicazioni pratiche aggiuntive per chi proprio desideri dormire con il proprio piccolo. Il materasso? Deve essere rigido, mai soffice. Cuscini e piumoni? Meglio di no. Quanto a lenzuola e coperte, bisogna fare molta attenzione che non coprano la testa del bambino. Come soluzione ottimale -sempre in assenza dei fattori di rischio di cui abbiamo detto- l’opuscolo propone le cosiddette culle sidecar, culle aperte su un lato che si agganciano al lettone, in modo che il bambino sia vicino alla mamma ma di fatto abbia un suo spazio separato, al riparo da cuscini, coperte, braccia e spalle dei genitori e così via. “Una soluzione che sembra ragionevole -commenta la pediatra- anche se in realtà non ci sono ancora studi che documentino la maggiore sicurezza di queste culle rispetto alla SIDS”.
Sulla questione sonno condiviso, dunque, almeno una parte del mondo pediatrico sembra aver abbandonato le posizioni più rigide di contrasto, a favore di qualche apertura in più. “Del resto, di fronte a un comportamento diffuso come il bed sharing c’è il rischio che indicazioni troppo restrittive vengano disattese, con la possibilità di conseguenze anche peggiori di quelle che si volevano evitare” afferma Tortorella. “Dire a una mamma che non può mai dormire con il proprio bambino, per esempio, può significare esporla al rischio di addormentarsi con lui sul divano, il che è molto più pericoloso. Oggi la strategia più opportuna è probabilmente quella del dialogo: bisogna parlare a lungo con le famiglie, capire quali sono le condizioni in cui dormono, le loro motivazioni rispetto all’allattamento, le loro convinzioni, e spiegare molto bene come stanno le cose: quali sono i fattori di rischio per il sonno condiviso e quali sono gli elementi di sicurezza da adottare. In modo che si possa trovare insieme la soluzione migliore per ogni famiglia”.
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