Neuroanatomia 2.0 per lo studio del connettoma umano
La risonanza magnetica è diventata la tecnica di elezione per lo studio anatomico e funzionale delle connessioni neuronali presenti nel nostro cervello perché permette di fare un'analisi in vivo e con un alto livello di dettagli.
RICERCANDO ALL’ESTERO – “Per comprendere meglio come funziona il nostro cervello, non basta studiare l’anatomia delle diverse componenti. È indispensabile riuscire a mappare le connessioni tra le varie aree, in condizioni fisiologiche e patologiche. Una ricerca simile è virtualmente infinita, può veramente essere diversa ogni giorno”.
Nome: Matteo Bastiani
Età: 30 anni
Nato a: Trieste
Vivo a: Oxford (Regno Unito)
Dottorato in: Neuroscienze cognitive (Maastricht, Paesi Bassi)
Ricerca: Costruire una mappa delle connessioni neuronali nel cervello di feti e neonati.
Istituto: Nuffield Department of Clinical Neurosciences (Oxford, Regno Unito)
Interessi: musica, giocare a tennis.
Di Oxford mi piace: l’aria che si respira entrando nei vari college, è come camminare sulla storia.
Di Oxford non mi piace: il tempo.
Pensiero: Enjoy life.
Cosa si intende per connettoma umano?
È l’insieme di tutte le connessioni che si instaurano tra le cellule nervose del nostro cervello. La mappatura del cervello umano è una delle grandi sfide scientifiche del 21° secolo e un aspetto chiave è cercare di descrivere i percorsi neurali che sono alla base della funzione e del comportamento del nostro cervello.
Qualche anno fa è partito lo Human Connectome Project (HCP) con l’obiettivo appunto di decifrare le reti neurali che generano pensieri, sentimenti e comportamenti negli adulti. Tra i membri del consorzio che ha portato avanti il progetto c’è anche l’istituto di ricerca in cui lavoro, l’Oxford Centre for Functional Magnetic Resonance Imaging of the Brain (FMRIB).
Nei classici studi di neuroanatomia, si utilizzano tecniche di microscopia e di colorazione istologica per caratterizzare l’organizzazione del cervello, procedimenti piuttosto laboriosi, limitati al 2D e fatti post-mortem. I recenti sviluppi nel campo della risonanza magnetica (RM) hanno permesso di studiare la funzione e l’anatomia del cervello in maniera non invasiva con soggetti perfettamente vivi, posizionati semplicemente in un magnete gigante che ruota attorno al loro corpo. In particolare, il metodo che sta rivestendo un ruolo sempre più importante è quello della risonanza magnetica di diffusione (dMRI).
Per dare subito un’idea di cosa sto parlando, i MUSE hanno usato come copertina del loro album “The 2nd law” un’immagine ottenuta con questa tecnica e proveniente proprio dall’HCP. Le linee colorate rappresentano le fibre nervose.
In cosa consiste la risonanza magnetica di diffusione?
È una forma di RM basata sulla misura del moto browniano casuale di molecole di acqua all’interno di un tessuto. La relazione tra istologia e diffusione è un po’ complessa, in generale la presenza di ostacoli o di danni ai tessuti modifica il comportamento dell’acqua e vincola il suo movimento. Nel cervello, strutture come membrane cellulari, organelli e guaine mieliniche confinano le molecole d’acqua in una direzione preferenziale parallela alle fibre nervose.
Dal punto di vista pratico, il contrasto di ciascuna delle immagini di risonanza magnetica è pesato per una certa direzione, in uno spazio 3D. Pesato vuol dire che il segnale dipende dalle molecole d’acqua che si muovono prevalentemente lungo la stessa direzione, per cui immagini diverse hanno contrasti diversi perché diversa è la direzione a loro associata. Se esploro una sfera di direzioni, riesco ad avere un quadro completo sul movimento dell’acqua. Mettendo assieme tutte le informazioni e rielaborando le varie immagini è possibile stabilire in quale direzione preferenziale vanno le molecole nella specifica parte di cervello studiata. Considerando gli ostacoli cellulari, si può supporre che questa direzione sia parallela agli assoni e, con questa idea di base, possiamo praticamente ricostruire tutte le informazioni dei vari tratti neuronali.
Questa è solo la prima parte del gioco. Per ottenere la copertina del cd dei MUSE devo connettere i diversi tratti, cioè partire da una certa posizione e costruire una linea. Per fare ciò si usa una tecnica di modellazione chiamata trattografia. I colori che vediamo nelle classiche immagini di dMRI rappresentano le varie direzioni su scala RGB: verde per la direzione anteriore-posteriore (naso-nuca), blu per inferiore-superiore (mento-fronte), rosso per destra-sinistra.
Che informazioni avete ottenuto dallo Humane Connectome Project?
A novembre scorso è uscito un grande studio su Nature, in cui si è cercato di decifrare la rete incredibilmente complessa di connessioni in relazione a degli indici di comportamento, psicometrici e demografici, quindi a ciò che rende ogni persona diversa da tutte le altre. Il tutto per gli individui adulti.
Un esperto molto famoso (ndr Sebastian Seung) dice che noi siamo il nostro connettoma, cioè che i nostri comportamenti non sono altro che la riflessione di come aree diverse del nostro cervello sono connesse. Ovviamente è un concetto molto estremizzato, perché poi i soggetti che abbiamo preso in considerazione sono adulti con un certo bagaglio di esperienze e sono queste esperienze che cambiano la connettività del cervello: è la famosa plasticità neuronale.
Il tuo progetto invece si occupa di bambini. L’obiettivo è lo stesso?
È da poco partito il Developing Human Connectome Project (dHCP) che si propone di fare gli stessi studi sui bambini, o meglio su circa 1000 feti a partire circa dal terzo trimestre di gravidanza e su 1000 neonati fino al primo anno di età. L’idea è vedere sia come avvengono i cambiamenti strutturali del cervello sia come si sviluppano nel tempo le reti neurali. Alla nascita, un bambino possiede delle connessioni di base, tipicamente quelle motorie, visive, e poi l’esperienza dovrebbe fortificarne alcune e cambiarne radicalmente altre.
Negli interessi del progetto c’è anche l’analisi di condizioni patologiche, come per esempio l’autismo o la schizofrenia, sia per quanto riguarda la diagnosi che la terapia. Spesso, per certe malattie, quando compaiono i primi sintomi si è già in fase avanzata: riuscire a fare uno screening precoce potrebbe aiutare a caratterizzare meglio il disturbo in modo da poter differenziare la terapia. Quando si parla di schizofrenia, per esempio, ci si riferisce a una classe enorme di disturbi e riuscissimo a trovare una mappa funzionale per ciascuna delle sue sottoclassi, un domani potremmo somministrare ai pazienti terapie personalizzate.
Quali sono le prospettive future del tuo lavoro?
Il dHCP è appena partito. Tra gli obiettivi c’è la costruzione di un atlante con tutte le connessioni nervose nel cervello del bambino, stimando anche quanto forte è la connessione o quanta mielina è presente.
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